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L’uomo, la sua salute e il suo ambiente al centro
dei 50 anni di ricerca dell’Istituto Ramazzini.

Intervista di Anna Magli Zandegiacomo
a Fiorella Belpoggi, Direttrice Scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna.

Fiorella Belpoggi, è Direttrice Scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna, un ente nato agli inizi degli anni ‘70, riconosciuto a livello internazionale e noto per i suoi fondamentali contributi alla ricerca nel settore dell’oncologia e delle scienze ambientali, in particolare nell’ambito del rischio sanitario legato agli ambienti di lavoro. Nei suoi 50 anni di attività l’istituto ha studiato oltre 200 composti chimici, un’attività che lo ha qualificato al secondo posto nel mondo per il lavoro svolto, subito dopo il laboratorio governativo americano.

Dottoressa Belpoggi quali sono stati i risultati più eclatanti che hanno segnato la storia dell’Istituto Ramazzini in questi 50 anni?
Il modello sperimentale che abbiamo utilizzato è un modello uomo-equivalente, dove sia le dosi del composto studiato che l’incidenza spontanea delle diverse patologie sono vicini alla situazione umana. Anche la durata degli studi riguarda tutto il periodo della vita, dai primi giorni di gravidanza fino alla morte spontanea, come avviene nell’uomo. Il nostro modello sperimentale è particolarmente sensibile, in quanto non vengono trascurati gli effetti delle esposizioni durante periodi particolarmente suscettibili della vita, le cosiddette finestre di rischio, come la vita embrionale, fetale, neonatale fino all’età adulta. Molti degli effetti di esposizioni precoci si manifestano solo dopo decenni, e fra questi anche il cancro, le malattie immunologiche, i deficit immunitari e tutte le cosiddette “Malattie non trasmissibili” che, nella maggior parte dei casi, hanno alla base un alterato rapporto fra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Attraverso questo modello abbiamo studiato importanti composti industriali, presenti nel nostro ambiente di vita e di lavoro e per alcuni di essi, come le plastiche, l’amianto, i carburanti fossili e i loro componenti, gli zuccheri artificiali, i solventi come la trielina, disinfettanti come la formaldeide, abbiamo rilevato la loro cancerogenicità decenni prima che venissero classificati come cancerogeni dalle agenzie regolatorie internazionali.

Vorremmo approfondire con lei i contenuti dello studio sperimentale condotto dal Ramazzini sugli effetti del glifosato e della capacità del pesticida di alterare il microbioma intestinale. Si è fatta un’idea di quali saranno le conseguenze della valutazione che risulterà dal Global Glyphosate Study di cui anche voi fate parte? Che provvedimenti vi aspettate saranno presi?
La valutazione del glifosato per la sua ri-autorizzazione in Europa è attualmente in corso e il dossier è sul tavolo dell’EFSA. Entro quest’anno dovrà uscire un verdetto. Purtroppo sulla cancerogenesi non sono stati eseguiti ulteriori studi dal 2017 ad oggi, quando la IARC, branca dell’OMS che si occupa del cancro, ha espresso una valutazione di “probabile cancerogeno”. É in corso ed ormai alla fine il nostro studio, il Global glyphosate study, uno studio multicentrico internazionale condotto dal Centro di Ricerca sul Cancro Cesare Maltoni dell’Istituto Ramazzini, lanciato con l’obiettivo di fornire una valutazione più completa degli effetti tossici, cancerogeni e riproduttivi dei diserbanti basati sul glifosato. Per ora abbiamo studiato e pubblicato solo alcuni parametri correlati al primo anno di studio, i risultati sulla cancerogenesi saranno disponibili fra un anno circa, e quindi non potranno essere presi in considerazione per la valutazione in corso all’EFSA. Per riuscire a finire lo studio, completamente indipendente, e pubblicarlo, è stata lanciata una campagna di crowdfunding, che però non ha portato i risultati sperati nei tempi dovuti. Basta andare sul sito di www.globalglyphosatestudy.org per fare una donazione liberale.
Il glifosato e due formulati commerciali, quello europeo Roundup BioFlow e quello americano RangerPro, sono stati testati sperimentalmente a diverse dosi a partire da quelle attualmente ammessa in Europa (EU ADI, 0,5 mg/Kg/die). I primi risultati hanno dimostrato ancora una volta che il glifosato causa importanti danni al microbioma intestinale e conferma la capacità del pesticida di alterare il microbioma intestinale anche a basse dosi. Partner dello studio globale sono: King’s College di Londra, e George Washington University, Icahn School of Medicine at Mount Sinai negli USA.
In pratica abbiamo potuto osservare una situazione di alterazione della diversità batterica, una condizione già associata a diverse conseguenze negative per la salute quali diabete e alterazioni metaboliche nell’uomo. Inoltre, lo studio ha evidenziato per la prima volta effetti significativi dei pesticidi a base di glifosato sulla comunità dei funghi che abitano nel microbioma intestinale. Questo elemento è importante perché la presenza di categorie diverse di funghi nell’intestino umano è collegata ad una serie di malattie, quali ad esempio la sclerosi multipla. Considerate le potenziali conseguenze patologiche, anche in mancanza di nuovi dati sulla cancerogenesi, l’alterazione nella composizione del microbioma intestinale deve essere presa in considerazione dall’EFSA per assumere le proprie decisioni sulla pericolosità di questo erbicida.

Sempre a proposito di pesticidi è noto quanto gli stessi mettano a rischio la biodiversità, gli impollinatori, la fertilità del suolo, cioè i mattoni di un’agricoltura produttiva e resiliente. A che punto è la legislazione europea a tale proposito e quale è stato il contributo dell’Istituto Ramazzini a questa battaglia?
Devo dire che negli ultimi anni, almeno a livello di buone intenzioni, l’Europa ha fatto grandi passi avanti nelle politiche di salvaguardia del pianeta e della salute. Rimane però la delusione di vedere spesso disattese le buone intenzioni, in quanto ancora oggi i fondi europei vanno ancora di più all’agricoltura convenzionale che all’agricoltura biologica, vanno ad incentivare cioè quei sistemi produttivi che maggiormente mettono in pericolo biodiversità, impollinatori, fertilità del suolo.

Fra le sue ricerche più importanti c’è sicuramente quella legata agli effetti del 5g, in fase di implementazione mondiale. In una recente intervista lei ha dichiarato che il 5G pone due ordini di problemi: il primo di “opportunità”(con le reti già in essere è davvero necessario?) il secondo l’incertezza sugli effetti biologici avversi che possono compromettere la salute della popolazione. Ci vuole spiegare meglio la sua opinione e aggiornarci sui risultati degli ultimi studi effettuati?
In effetti le mie considerazioni sono legate al fatto che per le frequenze più basse del 5G (700 MHz e 3600MHz) sappiamo che sussistono pericoli correlati all’esposizione, soprattutto per le emissioni del telefono cellulare, ma anche delle antenne, così come esistono per le generazioni precedenti 2G, 3G, 4G-LTE. Il nostro studio sul 3G lo ha dimostrato. Questi pericoli vanno tenuti sotto controllo mantenendo i limiti di esposizione a livelli di precauzione come abbiamo oggi in Italia (6 Volt/metro), limiti che abbiamo ottenuto grazie ad una legge del 2001, in parte purtroppo peggiorata nel 2011 perché sono stati modificati i tempi di rilevamento da 6 minuti alla media giornaliera. Comunque in Italia al momento siamo cautelati, difficile ottenere di più tenendo conto del fatto che ormai i telefoni cellulari e le connessioni wireless sono entrati nella nostra vita in maniera diffusa e quasi indispensabile. E nel nostro studio a quel livello di esposizione non abbiamo osservato pericoli per la salute, Diverso è il discorso per la terza banda di RF che dovrebbe essere messa in campo dal 5G, 26.000 MHz. Queste sono onde centimetriche o microonde, e non sono mai state studiate adeguatamente per i loro effetti sulla salute. Già con la generazione 4G-LTE o con reti cablate si possono ottenere trasmissioni di dati veloci e sicuri senza implementare con frequenze mai studiate la nostra rete di trasmissione wireless.

Lei ha spesso dichiarato che tema della prevenzione deve tornare al centro sia delle politiche locali che di quelle globali, così come nelle abitudini dei cittadini. In questi ultimi due anni il Covid ha sconvolto le politiche sanitarie e il tema della prevenzione è passato spesso in secondo piano. Quali saranno le conseguenze e cosa bisogna fare per tornare alla normalità? C’è qualche insegnamento che possiamo trarre da quello che abbiamo vissuto in questi anni di emergenza sanitaria?
Questa è una bella domanda! Cosa bisogna fare per sfuggire al Covid-19, non lo so, non è nelle mie competenze. So comunque dai dati disponibili che il vaccino ci protegge e che questa quarta ondata ha causato sintomi meno gravi delle precedenti soprattutto nei vaccinati. Oltre non vado.
Per quanto riguarda gli insegnamenti, forse l’unica cosa che ci è chiara è che non siamo onnipotenti. Dovremmo aver capito che solo una solidarietà globale potrà aiutarci a recuperare la salute del nostro pianeta e la nostra. Noi ci siamo adattati ad una medicina che ha avuto una visione consumistica, commerciale, dedicata ai ricchi: ci siamo occupati negli ultimi cent’anni di dare giorni alla vita, non vita ai giorni, e se non cambieremo in fretta il paradigma della nostra società, avremo davvero poco tempo.