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Il cambiamento climatico influisce sulla scomparsa di lingue e culture indigene. Oltre 40% a rischio estinzione.

Intervista di Anna Magli a Roberta Morano, ricercatrice all’Università di Leeds e lavoro su dialetti arabi della Penisola Arabica, in particolare Oman.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione A/RES/74/135, ha proclamato il Decennio internazionale delle lingue indigene per il periodo 2022-2032. La finalità è attirare l’attenzione del mondo sulla critica situazione in cui vertono molte lingue indigene e mobilitare risorse per la loro conservazione, promozione e rivitalizzazione, prevenendone così l’estinzione. L’emarginazione delle comunità indigene tocca ancora oggi dei livelli molto alti, soprattutto per via dei cambiamenti climatici e dell’attività deregolamentata di alcune industrie, che implicano migrazioni forzate, svantaggio educativo, analfabetismo e limitato accesso alle risorse. Da molti anni linguisti di tutto il mondo e attivisti per i diritti dei popoli indigeni lanciano l’allarme su questo fenomeno: il 41% delle circa settemila lingue parlate oggi in tutto il mondo è in pericolo e rischia di scomparire. Un fenomeno che viene esacerbato proprio dal cambiamento climatico. Dell’impatto che l’emergenza climatica ha sulle lingue delle popolazioni indigene nel mondo, se ne è occupata in varie occasioni Roberta Morano, ricercatrice all’Università di Leeds e lavoro su dialetti arabi della Penisola Arabica, in particolare Oman.

Dottoressa Morano, quando ha cominciato ad approfondire il tema della scomparsa a rischio di estinzione, qual è stato lo spunto che l’ha portata ad occuparsi di questo tema?
La prima volta che sono andata in Oman per la mia ricerca di campo linguistica è stato nel Febbraio 2017. Non avevo mai visitato il paese prima, anche se ne avevo approfondito vari aspetti: la storia, la società, il clima, gli usi e ovviamente la lingua. In quel periodo vivevo con una famiglia locale, con cui condividevo il cibo, lo spazio, gli usi quotidiani… insomma la vita di tutti i giorni. Un pomeriggio, ricordo bene, iniziò a piovere, prima poco poi sempre più abbondantemente. Mentre eravamo seduti a terra a mangiare, i bambini cominciano ad urlare eccitati dalla pioggia. Escono sul patio, saltano nelle pozzanghere d’acqua, girano vorticosamente con le mani in aria e la bocca aperta ad accogliere l’acqua piovana. Alcuni adulti decidono allora di dirigersi verso il wadi – termine arabo che indica le gole delle montagne, ma anche letti essiccati del fiume – non molto distante dal villaggio. Mentre eravamo in macchina, tutti cantavano bellissime canzoni per ringraziare della pioggia, dello spettacolo divino che stava avvenendo davanti ai loro occhi. E infatti, nell’arco di 20 minuti, eravamo di fronte alle montagne del wadi, sulla cima di un’altura e da lì potevamo vedere rivoli e cascate scendere di sotto a picco e ingrossare il letto del fiume fino a poco prima completamente vuoto e secco.
Non è inusuale in Oman questo tipo di avvenimenti, soprattutto nel periodo dei monsoni al sud – tra Luglio e Settembre – e nella stagione delle piogge al nord – tra Febbraio e Aprile. Quello che è inusuale, invece, e che questi fenomeni stanno diventando sempre più violenti, creando grossi danni alle coltivazioni, alle persone e alle tradizioni del luogo.
Mentre ero su quella cima ad osservare lo spettacolo, mi sono resa conto improvvisamente di quanto forte sia il legame tra le persone e l’ecosistema in cui vivono, ma anche tra la lingua e l’ambiente in cui si sviluppa. Attraverso la lingua descriviamo paesaggi, oggetti, fenomeni atmosferici, sensazioni… insomma, un modo unico di vedere, sentire, percepire il mondo. Se l’ecosistema cambia, cambia anche la lingua usata per descriverlo. Se l’ecosistema muore, muore anche la lingua.

Che cosa succede al vocabolario di una lingua indigena quando il clima cambia?
Il vocabolario di una lingua si sviluppa di pari passi all’evolversi della società, degli usi, dell’ambiente circostante. Molte popolazioni indigene in varie parti del mondo hanno un vocabolario altamente specializzato, soprattutto quando si prende in considerazione il paesaggio circostante, gli agenti e i fenomeni atmosferici, i tradizionali metodi di allevamento, caccia, medicativi, ecc. Pensiamo ad esempio alle popolazioni indigene dell’Artico, gli Inuit: la varietà di termini relativi ai venti, al ghiaccio, alla neve, al mare sono di gran lunga maggiori rispetto, per esempio, all’italiano. Questo succede perché gli Inuit, vivendo in un territorio ghiacciato per la maggior parte dell’anno e dove la tipologia di vento e mare hanno una grande importanza per la loro sussistenza (e.g., la pesca, la navigazione, ecc.), necessitano di sapere bene quando e come possono avventurarsi all’esterno. Sapere in che direzione soffia il vento e quanto agitato sarà il mare li aiuta a sopravvivere in un territorio impervio.
Lo stesso vale per le popolazioni indigene del deserto, dove occorre sapere che tipo di vento soffierà, se ci sarà una tempesta di sabbia che potrebbe farti perdere la rotta, oppure semplicemente il tipo di sabbia che si può incontrare lungo il percorso. Quando il clima cambia, questa terminologia altamente specializzata si perde, perché i venti cambiano intensità e direzione, le stagioni non sono più prevedibili e i cicli naturali che hanno ispirato il vocabolario indigeno smettono lentamente di esistere così che anche le parole smettono di essere usate.
Il cambiamento dei fenomeni atmosferici, però, non è la sola causa di questa graduale perdita. Pensiamo ai rifugiati climatici, intere popolazioni che sono costrette dal cambiamento climatico a lasciare il territorio e l’ecosistema in cui sono nati e cresciuti per sedentarizzarsi in un altro, a volte completamente diverso. Possono spostarsi in un’altra regione all’interno del proprio paese, ma spesso cambiare addirittura continente. In questo caso, i bambini cresceranno essendo esposti e adottando una lingua diversa, la lingua del posto, quella dominante utilizzata nel campo dell’educazione o dei media. Questi bambini parleranno il dialetto nativo soltanto all’interno delle mura domestiche e, ai loro orecchi, avrà sempre meno senso perché sradicato dal suo contesto culturale, ecologico e sociale. Piano piano, col passare di una o due generazioni, quella lingua indigena morirà per sempre.
Queste sono tutte conseguenze del cambiamento climatico.

I linguisti sono da tempo interessati all’ “ecolinguistica”, il tipo di linguaggio che tendiamo a usare per inquadrare le questioni ambientali. Secondo il linguista Michael Halliday, la nostra ecolinguistica può rivelare le nostre convinzioni. Che cosa intende dire?
Il termine ecolinguistica viene coniato da Einar Haugen nel 1972, che per primo riconobbe che la lingua è in realtà parte di un più vasto ambiente e non una cosa a sé stante. Nel 1990, Michael Halliday presentò al World Conference of Applied Linguistics in Thessaloniki un articolo in cui per la prima volta si legavano tra loro lingua, ecologia e ambiente come un unico filone che soffre le stesse pene. Secondo Halliday, il patrimonio materiale e immateriale di una cultura si riflette nella grammatica di quella lingua in modo non arbitrario. Per cui, se le condizioni cambiano, anche la lingua cambia. Halliday suggerisce l’idea che quello che succede a un dato ecosistema, succede anche alla lingua che lì si parla e si sviluppa.
In sociolinguistica esiste una teoria, nota col nome di “Sapir-Whorf hypothesis” secondo cui la lingua non riflette passivamente la realtà, ma anzi la crea. Questo significa che l’immagine del mondo, dell’ecosistema, dell’ambiente in cui una lingua si sviluppa è data dalla lingua stessa. La realtà si elabora attraverso le parole, attraverso la lingua e la sua grammatica. Ampliando il discorso ad includere l’ecosistema, quando una lingua scompare, un modo unico di creare la realtà circostante scompare e con esso una conoscenza specifica e specializzata di quell’ecosistema.

Gli studi hanno dimostrato che nella maggior parte dei luoghi dove la biodiversità è più accentuata, dall’area selvaggia della Nuova Guinea alle foreste guineane dell’Africa occidentale, troviamo anche maggiori diversità linguistica e culturale. Sembra che le due diversità vadano di pari passo. Ambienti biologici complessi legati a popolazioni linguisticamente diverse. Come si spiega questo fatto ed anche la loro scomparsa procede allo stesso ritmo?
Mettendola su un piano semplicistico, più elementi ci sono nell’ecosistema in cui una popolazione vive, più cose la lingua ha da descrivere e individuare. Per questo, zone con alta biodiversità presentano anche forte diversità linguistica e culturale.
Vanuatu, per esempio, è una piccola isola nel Sud Pacifico dove si parlano ben 110 lingue. In termini di biodiversità Vanuatu offre, tra le altre cose, ben 65 specie di orchidee endemiche e 127 specie di uccelli. Questa biodiversità deve essere descritta e identificata dalla lingua indigena, per esempio le piante utilizzate a scopo medico o per costruzioni, gli animali/insetti/uccelli che possono arrecare danno a cose o persone, ecc. La lingua è il modo in cui identifichiamo e categorizziamo il mondo che ci circonda, lo descrive, ci aiuta a comprenderlo e si lega intrinsecamente a quel luogo, a quelle persone e a quell’ecosistema.
Il problema più grave che ci troviamo ad affrontare parlando di lingue indigene è il fatto che spesso queste lingue non sono state descritte, non hanno una grammatica scritta, non ci sono registrazioni dell’uso e del contesto sociale/antropologico, quindi quando una di queste lingue inizia a perdere pezzi, in particolar modo il vocabolario, non c’è più niente da fare. Quel pezzo è perso per sempre o rimane solo nella memoria dei sopravvissuti .

Secondo gli scienziati esiste una naturale tendenza umana a classificare, organizzare e nominare le cose nel mondo che sono importanti per l’esperienza umana, come il colore o le forme e che esistono modelli universali nel modo in cui gli esseri umani chiamano le specie biologiche nel loro ambiente. Significa che quando la natura ha un’abbondanza di specie e habitat unici da descrivere si arricchiscono lingua e tassonomia delle popolazioni indigene rispetto a quelle di altri luoghi con meno biodiversità? Si può dire che con la scomparsa di certi idiomi restiamo orfani anche di termini creati ad hoc da quello stesso idioma che è scomparso?
Ogni lingua è il riflesso delle persone che la parlano ed è il risultato di un lungo processo di adattamento culturale, ecologico e sociale. Nessuna lingua può essere parlata fluentemente o capita fino in fondo se staccata completamente dal suo contesto di origine. Proverbi e modi di dire ne sono un esempio lampante: per quanto fluenti si possa essere in una seconda lingua, ci sono parti del discorso comune che un non madrelingua non comprenderà se non dopo molti anni vissuti in quel contesto.
Con le lingue indigene, di cui non esistono grammatiche, il discorso si fa ancora più complesso. La lingua ha la necessità di descrivere in modo fattuale e concreto la realtà circostante, sia essa sociale, culturale o ecologica. Per questo spesso la lingua produce termini o frasi ad hoc che rischiano di perdersi per sempre se le circostanze e il contesto in cui esse si sono sviluppate cambiano o vengono meno.

Alcuni degli effetti del cambiamento climatico sono facili da vedere: case distrutte, persone spazzate via nelle strade allagate, raccolti che appassiscono a causa della siccità. Altri effetti, come la perdita della lingua, sono meno tangibili e più complicati ma anche devastanti. Ha qualche esempio eclatante da evidenziarci?
Il discorso sul cambiamento climatico e lingua non ha ancora raggiunto gli apici dell’agenda popolare e politica in materia. Credo sia solo una questione di tempo. E’ certamente vero che “misurare” gli effetti del clima su una lingua è forse più difficile che misurarne gli effetti tangibili sul territorio o sulle persone (appunto, case distrutte, allagamenti, tempeste, uragani, ecc.). Però stiamo cominciando a vedere alcune di queste conseguenze… Pensiamo a Vanuatu, menzionata prima. Vanuatu sta lentamente venendo sommersa a causa dell’innalzamento degli oceani. La salinità dell’acqua ha già raggiunto livelli talmente alti da rendere non potabili gran parte delle riserve idriche dell’isola. Quando – perché purtroppo non è un “se” ma un “quando” – Vanuatu finirà sommersa e la popolazione locale dislocata cosa succederà alle sue 110 lingue? Invariabilmente molte di queste andranno perse per sempre e con loro una visione unica di quella parte di mondo.
In Sud Arabia, già territorio poco ospitale da un punto di vista geografico, l’imprevedibilità di certi fattori climatici – ad esempio, la siccità – e l’aumento delle piogge e di caldo estremo ha reso difficile la vita di popolazioni nomadi che ancora abitano questa parte di mondo. E per le popolazioni sedentarie la situazione non è certamente migliore! Questa imprevedibilità climatica e la violenza dei fenomeni atmosferici rendono difficili le coltivazioni, l’allevamento e in generale il sostentamento. E anche le lingue indigene soffrono di questa instabilità.

Ma quindi non c’è più nulla da fare? Dobbiamo rassegnarci alla catastrofe linguistica?
Assolutamente no!
Quando parliamo di lingue indigene, lingue senza una grammatica scritta e non registrate, il problema purtroppo non è solo il cambiamento climatico, ma anche politiche locali, la globalizzazione e il sistema educativo. Il discorso sociolinguistico è complesso ma affascinante. All’interno delle nazioni, la lingua viene spesso strumentalizzata come dispositivo di potere, sia politico che sociale. Si sceglie dunque una lingua– che può essere la lingua dell’economia, del potere politico, dell’élite – e la si fa diventare lingua dominante. Come? Attraverso politiche educative (e.g., la lingua utilizzata nell’insegnamento), sociali (e.g., la lingua utilizzata dai media), e politiche (e.g., la lingua utilizzata dalla classe politica per comunicare le proprie idee o leggi).
In questo contesto, le lingue indigene, i dialetti locali vengono abbassati ad una lega sociale più infima, spesso diventano oggetto di stigma e, talvolta, di persecuzione, così che le persone decidono di abbandonarli. Il cambiamento climatico si aggiunge a questi fattori di mutamento già esistenti.
Basterebbe dunque che, alla luce di quanto detto, si pianificassero metodi di salvaguardia delle lingue locali sia a livello politico che sociale, attraverso iniziative private e pubbliche. Ma anche che il discorso climatico iniziasse seriamente a prendere in considerazione gli effetti del clima sulle lingue indigene, magari finanziando programmi di documentazione linguistica e inserimento scolastico.

Un bell’esempio sono le Hawaii.
Nel 1970 rimanevano soltanto 2000 parlanti madrelingua di Hawaiano. Alcuni attivisti decisero allora di lanciare delle scuole di assorbimento linguistico dove i bambini venivano completamento immersi nella lingua fin dalla nascita e adesso le isole includono circa 19000 parlanti madrelingua. Una cosa simile è avvenuta con le popolazioni indigene della Nuova Zelanda, in cui negli anni Settanta soltanto il 5% dei giovani Maori parlava la lingua locale, mentre adesso si conta almeno il 25%.