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La viandanza è un lungo viaggio dentro di sé.

Intervista di Anna Magli
a Luigi Nacci, poeta, scrittore, insegnante, guida escursionistica.

Intervista a Luigi Nacci, poeta, scrittore, insegnante, guida escursionistica. Nacci ha messo la parola “viandanza” al centro della sua ricerca di uomo e di autore. Tra i suoi libri ricordiamo Trieste selvatica (Laterza, 2019), Viandanza. Il cammino come educazione sentimentale (Laterza, 2016), Alzati e cammina. Sulla strada della viandanza (Ediciclo, 2014). Sempre per Laterza uscirà a breve un libro dedicato alla filosofia del cammino.

“Di solito si parte per cercare se stessi e di solito, a meta raggiunta, si finisce per trovare qualcuno che non ci somiglia. Ecco, a me piace non assomigliarmi.”

Luigi Nacci.

La tua prima esperienza di viandanza è stata, nel 2006, il cammino di Santiago di Compostela. Un’esperienza che tu hai spesso definito come di “spartiacque” nella tua vita. Cosa ti ha rivelato per assumere questo significato?

L’ho definito uno spartiacque perché ha generato una serie di cambiamenti importanti. Nella mia città, Trieste, siamo abituati a camminare, a fare escursioni ma non sono come l ’esperienza del cammino che ho percepito in Spagna. Questo viaggio è stato una sorta di iniziazione, al di là del fatto che uno sia credente o meno. Un viaggio che ha riacceso la parte nomade che covavo da tempo. Credo davvero che ciascuno di noi abbia dentro, anche se compressa, una parte nomade e credo anche che in settimane di cammino, di esplorazione fuori e dentro di sé avvengano dei cambiamenti: per esempio si comincia a fare caso a dettagli che non avevamo mai visto prima. Cose che sembrano piccole, che avvengono all’esterno di noi come gli incontri con le persone, le piante, gli animali, gli stessi crocevia che ogni volta rimandano a scelte da fare nella vita. Cose che avvengono all’interno di noi perché ci si accorge che tutto quello di cui si ha bisogno è veramente poco, cambiamenti che ci fanno realizzare come siamo pieni di orpelli nella nostra vita stanziale. Quel cammino è stato uno spartiacque perché mi ha messo di fronte a una domanda di cambiamento che era ineludibile. Se moltissime persone in questi anni, sempre di più, si mettono alla prova con cammini lunghi, di settimane – perché c’è bisogno di tempo per stare dentro ai cambiamenti – credo sia perché queste persone avvertono di trovarsi in vite di cui sono insoddisfatti. Vite piene di oggetti inutili, di relazioni che restano in superficie, di lavori che schiacciano e non li fanno sentire in armonia con la loro vera natura: tutte cose che gli impediscono di vivere con gioia. Mettersi in cammino vuol dire stare dentro a una domanda, quella che riguarda la nostra vita stessa.

La parola viandanza è bellissima, non esiste nel nostro dizionario ma le persone la interpretano oggi come uno stato d’animo. Tu hai recentemente dichiarato che viandanza è anche un atto politico: chi parte trasforma se stesso e il mondo. In che modo avviene questo processo?

Viandanza è una parola solare. Tutte queste “a” rimandano alla luce ed è bello avere in bocca questa parola. Una parola che tiene dentro di sé il “viandante” ma anche la “danza”. La “danza sulla via”. Tiene dentro di sé il cammino e il desiderio fortissimo del cambiamento non solo di se stessi ma anche della società in cui viviamo. La grande rivoluzione, quella che uno sente quando cammina attraverso il mondo con uno zaino, magari in solitudine perché quando si è soli questi elementi si fanno più palpitanti, è che ci si rende conto che ci si affida sempre agli altri. Si bussa alle porte, si chiede dell’acqua, un consiglio, un aiuto. Chi viaggia con uno zaino possiede poche cose e non ha bisogno di molto: addirittura ci sono persone che durante il cammino si accorgono di avere peso inutile perché si sono portati dietro troppe cose e allora se ne disfano, le regalano ad altri che magari ne hanno bisogno in quel momento. Così come viene istintivo dividere il pane, o una mela o l’acqua con qualcuno che incontri sulla strada. E’ un istinto immediato quello di condividere durante un cammino, anche con gli estranei. Si crea quindi una situazione di comunanza, austerità, frugalità. Avere bisogno di poco e quel poco che hai dividerlo con gli altri. C’è l’opportunità di imparare a fidarti del tuo prossimo, come entrare dentro le case e chiedere ospitalità, condividere gli spazi. Già questo di per sé ha a che fare con un atto politico; poi c’è la sensazione – soprattutto quando si resta soli con uno zaino per molto tempo e ci si trasforma in una sorta di vagabondi – di sentirsi più vicini a chi è migrante. Anche se sei consapevole di essere una persona fortunata, che in qualsiasi momento potresti trovare una soluzione per scaldarti, nutrirti, lavarti, riesci a percepire il disagio di chi migra per disperazione, perché vuole cambiare vita, perché nel suo paese c’è la guerra o si soffre la fame. Solo chi si mette in cammino per molto tempo, in luoghi che non conosce, con il minimo indispensabile, senza reti di salvataggio può provare a immedesimarsi in quella che è la vita complicata e durissima di chi è migrante, di chi si fa nomade per salvarsi la vita, di chi scappa da un luogo pericoloso. Un viandante, contrariamente a chi sta chiuso in una stanza nella propria comfort zone – dove “comfort” può non avere a che fare con il conforto – , può avvicinarsi a comprendere queste disperazioni. Non è un caso che le persone che stanno chiuse nelle stanze, sempre più tempo, sono quelle che riversano un mare di odio sui social nei confronti di chi arriva con la disperazione dei propri piedi. Ma se quelle stesse persone, ne sono certo, si trovassero in un bosco da sole con il proprio zaino e i propri scarponi, senza poter chiedere aiuto a nessuno, non si permetterebbero mai più di riversare quell’odio verso chi migra, perché imparerebbero a provare empatia. Per questo “Viandanza” è una parola che tiene insieme molte cose e fra queste l’idea che ci sia il “risveglio” della propria parte nomade ma anche la maggiore comprensione per il migrante che vuole una nuova vita, il profugo che scappa dalla guerra, il vagabondo che non ha una meta e il pellegrino che invece ha una meta . E sempre per parlare del lato sociale e politico della Viandanza, in un cammino non riesci a non percepire le ingiustizie e i soprusi che le altre creature fragili subiscono. E quindi, ogni passo che fai diventa già di per sé “politico” perché ti rendi conto di come viene devastato il territorio, per esempio, di come ti impediscono il passaggio le proprietà private, i cancelli, i reticolati. Di come nascono discariche nel nulla.

In Alzati e Cammina conduci il lettore per mano fino a fargli comprendere che anche per lui è arrivato il momento di partire. Quando arriva questo momento?

Alzati e Cammina è un libro scritto in qualche mese ma pensato in tanti anni. Dal mio primo cammino verso Santiago sono passati sette anni prima che mi decidessi a scriverlo perché non mi interessava scrivere un libro di viaggi, ma volevo provare a immaginare degli esercizi che fossero utili a chi sta per partire per un viaggio rivoluzionario. Sono esercizi che ho provato su di me, anche surreali se vogliamo come quello di partire di notte, camminare sotto la pioggia o andare a trovare un amico senza sapere se l’amico è a casa o se è ancora vivo. Sono esercizi per mettersi alla prova. Il libro è scritto con un “tu” molto rimbombante, a volte militaresco ma era per rivolgermi a me stesso in modo severo perché cercavo di incitarmi a combattere le mie paure, quella di affrontare il viaggio e le richieste di cambiamento che sarebbero inevitabilmente arrivate dopo l’esperienza del viaggio. Quando ci troviamo nel silenzio di un bosco, di un prato, di un sentiero che sembra infinito, le domande arrivano e riguardano tutti gli aspetti della nostra vita e testano le nostre paure e le nostre risorse. Per questo ho voluto scrivere un libro di “esercizi”: un libro che aiutasse tutti ad affrontare la paura e anche a riconoscere quando è il momento di andare, perché quell’andare ci cambierà la vita.

E quando si ritorna? Tu affermi che “ l’unico cammino ostico è quello in cui ritorni a casa”. Come si cambia e come prepararsi al cambiamento?

Il cammino del ritorno è il cammino più duro di tutti. Quando si parte, si stabilisce una meta e, in una maniera o nell’altra, ci si arriverà perché la meta chiama continuamente. Il richiamo della prova suprema, che è appunto la nostra meta. Finché nella nostra mente c’era una meta da raggiungere, ne eravamo in un qualche modo motivati perché sapevamo che il percorso ci avrebbe cambiato, perché avremmo trovato degli alleati, degli amici ma anche avversari e ostacoli (tipo chi non accoglie il viandante o che gli impedisce di passare per la sua proprietà), però avevamo un obiettivo e diventavamo sempre più forti perché sapevamo di dover arrivare fino in fondo. Ma quando si è infine arrivati, e bisogna tornare a casa, ecco, quella è la cosa più dura. Perché la casa, in quel momento, non è come la meta. Noi siamo già cambiati, ed è cambiata anche l’idea della casa che non è quella da cui siamo partiti. Capita un po’ anche quando andiamo in vacanza, o siamo via per lavoro per tanto tempo. Quando torniamo, la casa ci sembra diversa. Così come è anche vero che la casa cambia a seconda delle stagioni, dalla luce che riesce a catturare, dalla presenza di ospiti più o meno graditi, di amici o di persone che generano tensioni. Tornare a casa è un’incognita. Durante il percorso abbiamo pensato alla nostra casa con sentimenti diversi: magari non avevamo più voglia di tornarci, oppure avevamo voglia di cambiare? Oppure non volevamo più viverci con chi ci aspettava di ritorno dal nostro viaggio. Quindi, come si torna a casa? Pieni di dubbi e tornare indietro, dopo che ci sono state delle trasformazioni dentro di noi, vorrebbe dire provare a spiegare a chi è rimasto ad attenderci che cosa ci è avvenuto. E’ molto difficile perché il viaggio non si può tradurre con le parole, soprattutto per chi si è messo alla prova con un cammino lungo. Al ritorno ci si sente pieni da scoppiare di cose da dire ma spesso non si sa come farlo perché parlare di campi, montagne, alberi e persone che hai incontrato sembra riduttivo: ci si rende conto che la gente non ne capirebbe il vero significato. Non è possibile raccontare il proprio cambiamento, quello che si è vissuto, la metamorfosi. Tornare vuol dire fare i conti con una casa che è rimasta uguale mentre noi siamo cambiati.

I tuoi libri nascono anche dai tuoi cammini. Quanto è legato il cammino al processo creativo della scrittura?

I libri che ho scritto in questi anni sono stati pensati camminando ma scritti da stanziale. La parte della scrittura e del mettere ordine nei pensieri appartiene alla stabilità mentre le intuizioni, la parte creativa è nel deambulare, nello spostarsi perché è nel cammino che arrivano continuamente degli stimoli. Non mi è mai interessato scrivere libri di viaggio ma mettermi in cammino significa ogni volta accettare una sfida e quindi riuscire a capire qualche nuovo pezzo di me, degli altri e del mondo. Capire la casa che abbandono, le persone che lascio per allontanarmi. Il processo creativo di un’opera che parte dal momento in cui la cominci a pensare e il cammino è la prosecuzione di quel sogno. Poi ci sarà la parte stanziale in cui mettere a posto tutti questi pensieri che si sono formati nel movimento.

Parliamo della lentezza. Che valore ha oggi la lentezza in un mondo che sembra non conoscerne più il significato?

Oggi la lentezza è qualcosa di stravolgente in un mondo in cui tutto è veloce e iperconnesso, sia che parliamo di persone che di cose. Il paradosso l’hanno dimostrato questi due anni di pandemia. Quando noi umani non potevamo più spostarci, le merci si potevano spostare e continuavano a mantenere la loro velocità. Gli uomini possono essere fermati ma le merci no. Quando si sta nella velocità, tutto quanto è molto confuso. A me capita di non riuscire a pensare bene, a mettere ordine nel grande caos che sento dentro di me. E quando “rallento”, camminando o chiudendomi in un luogo fuori dal mondo, in una sorta di eremo, allora comincio ad avere chiarezza. Credo che questo accada un po’ a tutti. Per secoli abbiamo avanzato adagio, ci siamo spostati lentamente nel mondo, a piedi, su dei carri. Solo con la rivoluzione industriale tramite le macchine e la tecnologia ci siamo velocizzati. Siamo però stati lenti per moltissimo tempo: abbiamo usato il nostro corpo per lavorare, per attraversare la realtà e in qualche maniera è come se noi fossimo progettati su questo ritmo. I nostri pensieri, i nostri sentimenti nascono sempre da quella velocità antica, quella che ci fa andare al massimo a piedi a 4/5 km all’ora, non alle velocità che abbiamo acquisito con le macchine. Di conseguenza tutte le sovrastrutture super veloci, come quella di Internet per esempio, che abbiamo creato intorno a noi, non sono in linea con la nostra natura. Per riuscire a vedere quello che sentiamo, quello che pensiamo dobbiamo tornare ad essere semplicemente quello che siamo, e cioè degli animali che si spostano a quella velocità. La lentezza non è altro che una chiave per rivederci: vederci alle spalle, vedere quello che siamo stati, vederci dentro.
Mi vengono in mente gli alberi che crescono lentamente, alberi monumentali che hanno secoli di vita. Osserviamo come si sono sviluppati, in verticale o in orizzontale a seconda di quella che era la strategia per lottare e sopravvivere. Le piante ci insegnano moltissimo su quanto è importante seguire i propri ritmi e i propri tempi. Credo che la lentezza sia anche un modo per contemplare le esistenze delle creature non umane.