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La rivoluzione del biodesign. Le sfide più grandi devono ancora arrivare.

Intervista di Anna Magli a Lucrezia Alessandroni, Biodesigner esperta in Product Design and Visual Communication.

Come il termine stesso suggerisce, il biodesign è l’unione fra biologia e design inteso in senso lato. Non solo quello legato all’architettura o alla progettazione di arredamenti, ma anche al mondo della moda, della medicina e dell’arte in generale. Anche nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York (sezione Design e Architettura) ha fatto la sua comparsa, il biodesign da quando sono apparsi strani oggetti contenenti microrganismi – batteri, miceti, insetti – in grado di proliferare e riprodursi. Qual è l’evoluzione di una disciplina che sta influenzando il divenire del design, pur essendone apparentemente così lontana? Gli studi dei biodesigner partono dal principio che la natura è il costruttore perfetto e che, per rispettarla, dobbiamo prendere esempio da lei. Leonardo da Vinci l’aveva già intuito a modo suo, come dimostrano – ad esempio – gli studi approfonditi sugli uccelli portati avanti per progettare la prima macchina volante. Progettare con organismi visibili come piante e animali, batteri e cellule, e persino creare nuovi sistemi viventi manipolando il Dna, è diventato l’equivalente nel XXI secolo del design di interfacce, universi virtuali e videogame. I biodesigner studiano le potenzialità di insetti, alghe, batteri, piante per sperimentare soluzioni ecocompatibili, capaci di rispondere alla crisi ambientale attraverso una materia organica da plasmare secondo le necessità. Prendiamo ad esempio la moda. Le procedure di biodesign consentono di realizzare abiti e tessuti come il Mylo, creato dal micelio dei funghi. Nell’edilizia, invece, l’architettura diventa sostenibile grazie all’uso di scarti della produzione del riso (lolla, pula e paglia) combinati ad altri materiali naturali come argilla, sabbia e leganti. Le applicazioni spaziano dalla malta all’intonaco, passando per pitture e pannelli isolanti. Tutto si basa sull’economia circolare, con lo scopo di produrre meno rifiuti possibile e di ridare vita alla casa inglobando al suo interno organismi viventi. L’integrazione dei principi del biodesign nella ricerca e nello sviluppo del prodotto sta diventando sempre più comune nelle università, negli studi di progettazione e nelle organizzazioni senza scopo di lucro in tutto il mondo. Per capire la storia del biodesign, gli sviluppi, la ricerca e le applicazioni abbiamo intervistato Lucrezia Alessandroni, Biodesigner esperta in Product Design and Visual Communication.

Quando e come nasce il biodesign e quali sono state le sue prime applicazioni?

E’ difficile stabilire una data precisa poiché si tratta di una disciplina emergente che ha però profonde radici in tutta la storia dell’umanità, basti pensare ai processi di fermentazione che ci accompagnano da millenni. Il biodesign non risponde neanche a una definizione univoca ma piuttosto a un termine ombrello che racchiude al suo interno differenti branche di ricerca, come ad esempio il design biomimetico o il design rigenerativo. Il denominatore comune, rimane in ogni caso quello di guardare al mondo naturale e alle specie viventi (umane e non) come destinatari dei processi di progettazione, nonché protagonisti del processo produttivo. Fin dagli albori, il biodesign è stato applicato ai campi più disparati, dalla moda all’edilizia, dal settore medico a quello alimentare, e negli ultimi anni stiamo entrando in una nuova fase dello sviluppo, dove molto probabilmente i protagonisti saranno il biodesign e l’intelligenza artificiale.

Come si diventa biodesigner? Che tipo di percorso formativo bisogna fare?

Parlando della mia personale esperienza, ho conseguito un master in biodesign alla Central Saint Martins di Londra che mi ha fornito le basi per avere una comprensione esaustiva dell’argomento. Successivamente, ho avuto modo di immergermi nel mondo del biodesign non più come studentessa ma come insegnante, organizzando workshops anche al di fuori dell’ambiente accademico. La bellezza di questa disciplina risiede proprio nella sua accessibilità. La sperimentazione nel biodesign nasce nell’ambiente domestico, molto spesso documentata e condivisa in un’ottica di trasparenza e riproducibilità. Prima ancora di iscrivermi al master, avevo iniziato a “cucinare” bioplastiche e coltivare cellulosa batterica nel mio monolocale di 14mq in affitto a Parigi, durante la prima ondata di Covid. Non lo ritengo un percorso molto diverso da chi si è cimentato nella produzione di formaggio in casa, tanto per fare un esempio. Il mio successivo percorso universitario è stato semplicemente un trampolino di lancio per affinare le mie competenze.

Quali sono le principali applicazioni del biodesign? Quelle che magari oggi sono sotto i nostri occhi, ma non ne siamo consapevoli.

Come brevemente accennato in precedenza, credo che una delle più antiche applicazioni del biodesign si possa ritrovare nei processi di fermentazione. L’addomesticamento di lieviti e batteri impiegati poi nella produzione di cibi e bevande, è un esempio chiarissimo di collaborazione con i microbi. Così come la scoperta e sintetizzazione della penicillina a partire da una semplice muffa. Tuttavia, negli ultimi anni si è visto un crescente numero di progetti incentrati al design dei materiali e credo che questa sia stata una delle applicazioni più ricercate. Basti pensare a tutti i prodotti presenti nel nostro ambiente domestico, soprattutto il monouso biodegradabile. Altri esempi applicativi si possono ritrovare nella ricerca di tessuti alternativi, prodotti cosmetici a base naturale e alimenti a base vegetale, commercializzati da aziende stabilite e start up in rapida crescita. Per citarne alcune, Quorn (UK) produce alimenti sostitutivi della carne dagli anni ‘80 grazie alla coltivazione di un fungo filamentoso; mentre spostandoci in ambito fashion, Bold Threads (USA) commercializza filati in seta di ragno da almeno una decina di anni, così come OrangeFiber in Sicilia che utilizza invece gli scarti delle arance per produrre i suoi tessuti.

Il biodesign promuove la ricerca e la messa in opera di soluzioni sostenibili volte alla protezione della natura e dell’ambiente. Che aspetti etici di discussione possono essere coinvolti nel progettare con organismi viventi?

Più che proteggere la natura, il biodesign si occupa di creare dei modelli di coesistenza con il mondo naturale. Si parla di un cambiamento di prospettiva relativamente importante, nel quale la progettazione non ha più l’essere umano al centro, bensì ogni abitante del Pianeta Terra, come se fosse una sorta di rivoluzione copernicana applicata all’industria. I sistemi standardizzati e lineari stanno lasciando spazio ad altri più resilienti e circolari, nei quali le metodologie sono riproducibili globalmente ma coinvolgendo attori locali nella risoluzione di problemi locali.
Gli aspetti etici da considerare riguardano i principi secondo i quali si opera: si parla di collaborazione con gli organismi viventi piuttosto che sfruttamento di questi ultimi, così come di approcci olistici e interdisciplinari o di settorializzazione. In quest’ottica rivoluzionaria, la protezione della natura viene meno per il semplice fatto che quest’ultima non è più concepita come un’entità a se stante, bensì come un sistema nel quale l’essere umano è parte integrante.

Una recente riflessione sull’attuale rapporto tra design e scienza poneva l’interrogativo se il design, uscendo dai propri ambiti consolidati, tenda o meno a snaturarsi e a perdere le proprie capacità disciplinari o se, piuttosto, tenda ad acquisirne di nuove investendo nel dialogo con la scienza?

Una caratteristica del biodesign è sicuramente la sua interdisciplinarità. Scienziati, ingegneri, designer, architetti e artisti sono chiamati a collaborare nell’immaginare futuri alternativi, aprendo le porte ad applicazioni che sembravano impossibili fino a qualche tempo prima. Il potere di questo scambio di conoscenze risiede nel fatto che finalmente la scienza non viene più considerata come un’entità astratta e fruibile da pochi esperti, bensì come uno strumento in grado di dare vita ad un’idea. Gran parte del lavoro di un biodesigner riguarda proprio questa decostruzione del linguaggio scientifico, così da renderlo accessibile alle masse tramite prodotti tangibili, risultati da un’analisi complessa di dati. Un altro aspetto importante riguarda sicuramente il concetto di coproduzione, dove il biodesigner collabora con altre entità non umane che “parlano” lingue diverse. Da qui ne consegue una perdita di controllo poiché non sempre è facile prevedere come quel determinato organismo potrebbe reagire a determinate condizioni, nonostante la maggior parte delle volte, questa collaborazione dia vita a piacevoli e sorprendenti scoperte.

Quindi, con il biodesign il ruolo del designer si evolve, assumendo funzione di mediatore tra la ricerca scientifica e la società… Quali sono le più recenti applicazioni del biodesign nell’edilizia?

Nel campo dell’edilizia credo che il micelio sia uno di quei biomateriali che probabilmente faranno da padrone nei prossimi decenni. Il micelio può essere definito come l’intreccio di radici del fungo in grado di decomporre e “digerire” materia organica e inorganica. Il micelio viene già impiegato nell’industria della moda, nonché in quella edilizia e cosmetica. Dal punto di vista architettonico, questo materiale offre delle ottime caratteristiche di resistenza e leggerezza, oltre a proprietà ignifughe e fonoassorbenti. Nel processo di produzione, il micelio viene inoculato in una “pasta” nutriente usata come fonte di cibo e supporto fisico di crescita. Il micelio si nutre di questa pasta e la ricopre con un soffice tappeto bianco, mantenendo la forma del substrato di partenza. Queste paste nutrienti possono essere ricavate da scarti contenenti cellulosa come carta e cartone, ma anche altri tipi di scarti come i fondi di caffè. Un esempio pratico: Blast, una start up londinese, ricicla i bicchieri di carta utilizzati per il caffè d’asporto che vengono poi ridotti in poltiglia, estrusi con una stampante 3D e successivamente inoculati con il micelio. L’Azienda italiana Mogu realizza prodotti per interni come pannelli e pavimenti interamente in micelio, confermandosi ormai da anni tra i pionieri del settore.

Con il progetto Pseudofreeze, il sistema di refrigerazione per il trasporto di vaccini che utilizza l’energia prodotta da una proteina modificata di un batterio, il biodesign, ha svolto un ruolo rilevante per indirizzare i processi d’ innovazione e sviluppo verso un approccio responsabile e sostenibile per la risoluzione di un problema reale. Quali altre applicazioni in medicina hanno svolto la stessa funzione?

Una delle più antiche applicazioni già citate in precedenza riguarda l’invenzione della penicillina a partire da una comune muffa. Spostandoci in tempi più recenti, gli studi sul microbioma (l’insieme di organismi che coabitano nel nostro corpo) stanno finalmente facendo luce su tutta una serie di condizioni che riguardano l’ utero, dal trattamento delle infezioni vaginali all’alleviamento dei dolori mestruali. Un’ulteriore applicazione ancora in fase di sperimentazione riguarda l’impiego di materiali sintetizzati dalle alghe, compatibili con il corpo umano e fonte di nutrimento per le sue stesse cellule. L’utilizzo di questi organismi sta aprendo la strada alla prototipazione di organi stampati in 3D, con un impatto in grado di ridurre drasticamente il rischio di rigetto, nonché i tempi di attesa per ricevere un trapianto, eliminando del tutto il commercio illegale di organi.

Come è applicato il biodesign nell’industria del fashion?

Il biodesign ha trovato ampio spazio di applicazione nell’industria del fashion nella creazione di materiali così come nei processi di tintura. Riguardo quest’ultimo punto, sono ormai diversi anni che si sperimenta la tintura batterica e finora è stato possibile ottenere risultati strabilianti in termini di colorazioni, fantasie e riduzione dell’impatto ambientale. Il mondo naturale offre tantissime risorse “colorate” dalle quali attingere. Aziende come Colorifix si occupano della tintura dei tessuti tramite l’ingegnerizzazione di organismi viventi come alghe e batteri. Altre applicazioni sono tutte quelle che invece si occupano di creare nuovi tessuti, principalmente eco pelli derivate da micelio, macroalghe, cellulosa batterica, fibre di ananas etc. Nonchè quelle specializzate nella creazione dell’effetto iridescente proprio delle paillettes e dei materiali plastici, in questo caso sostituiti dalla cellulosa (uno degli elementi più abbondanti in natura).

Questa tendenza della moda sostenibile apre la strada a una nuova rivoluzione industriale?

Il settore della moda è una delle cause maggiori d’ inquinamento e la maggior parte dei danni ecologici si verificano nel corso del processo di finitura e tintura degli indumenti. Si vanno poi ad aggiungere modelli come quello della “fast fashion” che riempie le discariche ogni anno di rifiuti tessili impossibili da riciclare a causa della multi materialità dei tessuti stessi, gravando sulle comunità più fragili e a rischio del nostro pianeta. La nuova rivoluzione industriale avverrà quando i nostri prodotti si trasformeranno il più possibile in sistemi biologici, capaci di crescere e degradarsi, diventando risorsa per altri sistemi e non più rifiuto. A quel punto, potremmo essere in grado di “coltivare” i nostri stessi indumenti utilizzando risorse locali, così da supportare e arricchire la biodiversità di diverse aree geografiche. Questi stessi principi potranno essere applicati anche ad altri settori oltre a quello della moda e, come lascio immaginare, i risultati previsti segneranno quella che potrà essere definita una nuova rivoluzione industriale.

Quali ritiene, potranno essere le prossime sfide del biodesign? In quali altri settori potranno essere sperimentati?

La più grande sfida del biodesign sarà di cambiare le malsane abitudini acquisite in anni e anni di utilizzo e sfruttamento delle risorse naturali. Le aziende e start up di biodesign che già operano nel settore, stanno fornendo un ventaglio di possibili applicazioni per far sì che ci si abitui a svegliarsi la mattina e indossare una maglia tinta con dei batteri o sedersi su una sedia fatta in micelio. In queste applicazioni però, l’elemento vivente utilizzato in fase di realizzazione, viene poi “ucciso” per consentire una stabilizzazione del prodotto, fermando così il processo di crescita. La sfida più grande sarà mantenere l’elemento vivo così com’è, chiedendo al consumatore di prendersi cura dei propri prodotti e accettarne il loro cambiamento durante il tempo, allontanandoci dall’idea che questi materiali siano solo dei sostituti di quelli odierni.