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Montagna terapia: persone fragili in cammino.

Intervista di Anna Magli a Matthias Canapini: scrittore, fotografo e giornalista

Una cordata che non punta alla vetta, bensì a non cadere, sostenendosi reciprocamente. Nei progetti di montagna-terapia c´è un soggetto curante e un soggetto curato, ma ci sono soprattutto persone che partono e arrivano, che si difendono e si espongono. In montagna, più che in altri contesti, la terapia è una terapia per tutti. Matthias Canapini, che è scrittore, fotografo e giornalista, dal 2022 si occupa di montagna terapia, cioè di accompagnare persone con diverse fragilità sull’Appennino, nello specifico all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.

Tu nasci fotoreporter, e anche se sei molto giovane in questi anni hai viaggiato per lavoro in moltissimi luoghi, percorrendoli soprattutto a piedi. Luoghi di conflitto principalmente…

Sono nato nel febbraio 1992. Dal 2012, in quanto scrittore, fotografo e giornalista indipendente racconto storie con taccuino e macchina fotografica. All’età di 19 anni ho realizzato il mio primo reportage nelle campagne minate di Sarajevo (Bosnia), per raccontare gli strascichi di una guerra “esplosa” nell’anno in cui venivo al mondo. Negli anni ho continuato a viaggiare, quasi esclusivamente a piedi e con mezzi pubblici, nei Balcani, est Europa, Caucaso, Africa Occidentale, sud-est asiatico, medio Oriente, documentando aree di conflitto (Siria, Ucraina, Kurdistan iracheno), il sisma in centro Italia, le memorie “rurali” lungo Alpi e appennini, il rugby come strumento inclusivo. Durante l’ultimo progetto (maggio 2018-gennaio 2020) ho seguito le principali rotte dei migranti che dall’Africa Sub Sahariana al Medio Oriente si snodano fino al cuore d’Europa. Vedo nei piedi uno strumento valido per fare giornalismo “lento”, maggiormente empatico e rispettoso delle persone. Credo che i piedi siano un buon filtro per l’incontro poiché rallentando tocchi cose piccole, minuscole ma essenzialmente profonde e formative. Attraverso i passi condivisi ricomponi la Storia attraverso le testimonianze degli “ultimi”.

Dopo il sisma del 2016 hai scelto invece di camminare sull’Appennino del post terremoto per raccontare la resistenza silenziosa delle nostre terre. Che esperienza è stata?
Il pellegrinaggio all’interno del “cratere” del centro Italia è stato senza dubbio il progetto che più mi ha cambiato: non solo perché affrontato interamente a piedi ma perché quel contesto non era più distante, esotico, in qualche luogo lontano ma a due ore circa da casa (Fano ndr). Tuttora penso a quel viaggio in modo viscerale, intimo, a tratti mistico. Il 24 agosto 2016 mi trovavo in Lucania per raccogliere alcune storie sul mondo contadino del secolo scorso e, apprendendo la notizia del sisma alla Radio, ho sentito istantaneamente la necessità e l’esigenza di raggiungere i luoghi colpiti per poterli raccontare. Da quel momento, per circa due anni, ho camminato (in maniera alternata) dentro gli epicentri così come lungo i margini, ossia i borghi meno colpiti dalle scosse. L’intento era ed è sempre lo stesso: raccontare storie, volti, nomi al di là dei numeri, percentuali, statistiche. In questo caso storie di crepe, comunità, calcinacci, pascoli, montagne ferite. Vedo i Sibillini come una seconda casa, come un cordone ombelicale, come un focolare a cui tornare ogni tanto per respirare e contemplare la vastità.

 

Tutte queste esperienze ti hanno formato in quello che è diventata la tua attività principale, il progetto “A passo d’uomo: verso la riabilitazione”, di cosa si tratta?

Era l’ottobre 2022. Grazie alla sinergia con l’Agenzia Res di Fermo ed un paio di amici appassionati di montagna (il primo assistente sociale, il secondo psicologo), siamo riusciti ad organizzare un cammino di tre giorni nei Monti Sibillini con un gruppo di richiedenti asilo provenienti da Ciad, Nigeria, Somalia e altrove. Un po’ per gioco, un po’ per destino ci siamo amalgamati. L’intento era camminare insieme, guardare e raccontare “casa” con occhi nuovi e culturalmente distanti. Camminare anche per riaccendere i riflettori sulle aree interne e sostenere alcune realtà/comunità colpite duramente dai recenti terremoti (ottobre 2016). Da cosa nasce cosa e la rete si allarga, spesso inaspettatamente. Di recente, grazie al sostegno dell’associazione Dianova, abbiamo concluso un ulteriore cammino in compagnia di alcuni ragazzi della Comunità di Recupero di Montefiore (AP). Di nuovo la montagna come orizzonte; la montagna come “riabilitazione” dopo l’utilizzo di sostanze e tossicodipendenze varie. Vorremmo continuare a stringere amicizie e legami (ri)scoprendoci tribù, memoria, ponte.

 

La condivisione e l’interazione sono i punti nevralgici della montagna-terapia. A chi sono dedicati questi percorsi in modo particolare? Oltre a te chi accompagna le persone in questa esperienza, con quale ruolo?

Finora ci siamo relazionati con il mondo della tossicodipendenza e del sistema d’accoglienza, ma con calma auspichiamo di dedicarci, di certo con più competenze e struttura organizzativa, pure al mondo della disabilità. Le passeggiate ricordiamo sempre che sono aperte a chiunque voglia mettersi in gioco e testare sulla propria pelle questo tipo di esperienza. Consiglio di seguire eventualmente i profili Social di Matteo Salvucci, psicologo di Comunità e ideatore del progetto insieme a me, Gianluca Boccanera (guida AIGAE e assistente sociale) e Michele Maurizi (Direttore della Comunità menzionata). Ufficialmente quest’ultimo cammino è nato da noi quattro ma si è concretizzato grazie all’aiuto di tante altre persone, tra cui piccoli sponsor e donatori privati.

 

Le strutture di accoglienza, come rifugi e foresterie hanno risposto positivamente al progetto?

Sostanzialmente entrambe le esperienze sono andate bene, nonostante la fatica legittima, i dubbi, la stanchezza, il mettersi in gioco reciproco. Oltre ai boschi e le valli attraversate (passando per aree naturali protette e antiche vie pedonali o di collegamento) tutti gli itinerari scelti hanno mantenuto una forte valenza turistica, culturale e simbolica. Le strutture di accoglienza, come rifugi e foresterie (rifugio del Fargno, rifugio del Tribbio, Il Giardino delle Farfalle, La Quercia della Memoria n.d.r), sono stati fondamentali per il senso del progetto, in quanto spazi di scambio, calore e socialità. Abbiamo ricevuto tanti sorrisi, tanti auguri, tante pacche sulle spalle. Ci auguriamo di proseguire in questa direzione, sporcando le scarpe di terra, imbastendo connessioni con istituzioni e privati cittadini, affinché l’atto del camminare diventi pura scoperta, la poesia dei luoghi remoti antidoto alle paure odierne.

 

A tutti gli effetti il “pellegrinaggio” si avvale della montagna in quanto “strumento” educativo, inclusivo, stimolante… Perché la montagna?

Credo che la montagna sia tante cose: fatica, sacrificio, bellezza, serenità, scomodità, amore. Credo che possa insegnarci un’idea diversa di stare al mondo, ossia il ritorno all’essenziale, a quella semplicità che tanto manca. Sudiamo tutti allo stesso modo, al di là delle categorie imposte. La cosa più rivoluzionaria del camminare in montagna all’interno di progetti “inclusivi”, è abbattere gradualmente le etichette. Non esiste più migrante, disabile, utente psichiatrico ma persone, ognuna con le proprie difficoltà e aspirazioni. In quell’immensità che sono gli alberi, le pietre, il cielo incombente, ci si sente parte di tutto.

 

Gli altri partecipanti possono contribuire al processo di guarigione e riabilitazione?

Assolutamente si. L’aiuto o semplicemente il confronto è reciproco e circolare. Camminando capisci che dietro quelle frontiere o dentro quella bottiglia di vodka potremmo finirci (o esserci già dentro) anche noi. Gli altri siamo noi e tu sei un altro me. Basta pensare a questo fatto: mentre camminavamo tante delle persone incontrate non avevano capito chi fosse “l’educatore” e chi “l’utente”. Chi accompagnava chi? Questo aneddoto credo sia sufficiente a spiegare una cosa: spesso utilizziamo il termine terapia per pura convenzione e comodità, ma forse è sufficiente maggior empatia, meno spettacolarizzazione, avere voglia di mettersi nei panni altrui.

 

C’è qualche nuovo progetto su cui lavorando? Ci anticipi qualcosa?

Qualche mese fa ho cominciato una ricerca sul campo che si snoda per ora dalle Alpi Apuane al monte Terminillo. Intervistando guide escursionistiche, ricercatori, attivisti e seguendo come filo conduttore l’acqua, vorrei raccontare temi quali salvaguardia del territorio, estrattivismo, riscaldamento globale. Sto cercando finanziamenti e portali di comunicazione per portare avanti e diffondere la ricerca. Auspico di svolgere un lavoro sui quattro elementi; muovermi inizialmente in Italia ma estendere poi la ricerca anche in Europa. Spero di trovare la maniera per raggiungere via terra il Circolo Polare e fare rete con istituzioni, rassegne, circoli culturali, blog.

 

In quale disposizione d’animo occorre porsi per godere appieno di questa esperienza?

Fare vuoto dentro e porsi in ascolti. Lasciarsi contaminare e provare ad essere se stessi. Gettare via le maschere (spesso imposte) che indossiamo costantemente.