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Inside The Green

Intervista di Anna Magli Zandegiacomo al
Prof. Vincenzo Fogliano, Food Scientist.

Vincenzo Fogliano ha lavorato per 20 anni all’Università di Napoli come docente di Biochimica, Chimica degli Alimenti e Alimenti funzionali. Dal 2013 è presidente del gruppo Food Quality & Design e Editor in Chief del Journal of Functional Food dal 2017.
Da 8 anni ricopre il ruolo di Direttore del dipartimento di Food Quality & Design dell’Università di Wageningen, Paesi Bassi.

Prof. Fogliano, secondo lei esiste al momento nel consumatore una consapevolezza di sostenibilità quando fa la spesa alimentare?
Quando si parla di sostenibilità, la maggior parte delle persone vede solo una piccola parte del totale e pensano che la parte che vede sia quella che alla fine ha effetto impattante. Prendere in considerazione un solo elemento dell’insieme e pensare che sia il più importante non è un approccio corretto. Negli ultimi tempi molta attenzione è rivolta all’eccesso di packaging dei prodotti alimentari, la maggior parte composto di plastica. Si tende a ritenere che solo la plastica inquini e non che sia sostenibile. Questo è un errore di valutazione perché, se ci preoccupa la plastica che avvolge, per esempio, il cetriolo che acquistiamo al supermercato, dobbiamo anche considerare che quel pezzo di cellophane ci consente di buttare il 10 in meno di quello stesso cetriolo, perché nel cellophane si conserva meglio. Ora, buttare il 10% del cetriolo è un impatto esponenzialmente maggiore di quello di buttare un pezzo di plastica perché il processo di coltivazione di un cetriolo implica consumo d’acqua, trasporti, ore di lavoro ecc. E non è altresì vero che gettare il cetriolo andato a male nell’umido non abbia nessuna conseguenza. Quindi, l’utilizzo della plastica per conservare la verdura e la frutta, non deve essere demonizzata. Se il packaging è riciclabile, magari minimizzato e consente di ridurre lo spreco di cibo è un obiettivo importante a livello di sostenibilità. E’ molto di tendenza infatti, e anche gratificante, fare spesa in quei supermercati che non usano imballi di plastica, ma espongono frutta e verdura sfusa dentro enormi cassoni, dove chiunque può andare a sceglierseli e portali a casa così sfusi. Sembra tutto molto sostenibile ed ecologico ma è un’impressione sbagliata: alla fine della giornata, dopo che tutti hanno scelto i loro frutti o le verdure esposti in cima al mucchio, in fondo alla cassa rimangono quelli ammaccati e inutilizzabili che creano davvero uno spreco alimentare, di energie e risorse. E questo solo per far passare il messaggio che in quel luogo che non si usa la plastica.

E per quanto riguarda il biologico?
Sono a favore del biologico se realizzato in determinate circostanze ambientali, per esempio in Italia, dove non si fanno culture intensive. Ci sono nicchie in cui il biologico ha aumentato la consapevolezza delle persone sull’importanza di come la terra deve essere coltivata. Tutto questo è encomiabile ma bisogna essere consapevoli che non può esserci solo biologico, è impensabile, utopico. Il biologico ha rese inferiori rispetto al convenzionale. Se si producesse solo biologico la metà del pianeta morirebbe di fame. Il biologico è più costoso. Alcune persone possono consapevolmente decidere di spendere di più per alimentarsi con biologico perché ne hanno i mezzi. Altre persone, sotto un certo livello di reddito, se decidono di spendere per il biologico, non investono per altre cose essenziali. Se una famiglia deve decidere di mangiare biologico e rinunciare a mandare il figlio in piscina o fare un accertamento medico, è meglio che non mangi biologico e si concentri su altre priorità. Esistono miti che vanno sfatati. Il biologico fa sicuramente bene sotto un punto di vista ambientale, ma non è dimostrato che mangiare biologico migliori lo stato di salute. Il biologico da un punto di vista salutistico e nutrizionale è uguale al cibo tradizionale.

Sono affermazioni che susciteranno molta sorpresa. Sarebbe interessante capire da dove nasce questo mito del biologico inteso come alimentazione salutare.
E’ uno dei tanti miti sbagliati che riguardano il mondo dell’alimentazione. Da un punto di vista scientifico sono stati fatti moltissimi lavori che hanno cercato di dimostrare che il biologico contiene più vitamine o è più nutriente. I risultati però sono comunque chiari: non è scientificamente provato. Mentre è provato il beneficio che ricava la terra e, di conseguenza il pianeta, da un’agricoltura biologica. Una scelta consapevole che andrebbe proposta in molti paesi di cultura agricola avanzata, ma non è detto che vada bene per tutti; sicuramente dove esiste un’agricoltura molto intensiva, il passaggio al biologico sarebbe di gran beneficio per i terreni. Stesso trend riguarda il consumo di carne e la teoria che mangiare carne implica un esagerato impiego di risorse. Passa quindi il messaggio che mangiare vegetariano è mangiare sostenibile. Non è del tutto vero. Quando ci dicono che per una bistecca ci vogliono “centomila litri di acqua” bisogna prendere in considerazione altri fattori. Per esempio in molti casi si tratta di acqua piovana, che non viene sottratta ma è presente in natura. Questo discorso vale invece per gli allevamenti intensivi, dove realmente esiste questo eccessivo consumo di acqua. Vero è che mangiare meno carne è più salutare, ci sono paesi che ne fanno un consumo esponenziale e pericoloso. Ma non è comunque giusto però eliminarla completamente dall’alimentazione, assumere un atteggiamento integralista. Se nessuno mangiasse più carne, ci sarebbero infatti ricadute anche di altro tipo. I prati senza pascoli sarebbero improduttivi: i ruminanti servono per mantenerli puliti altrimenti bisognerebbe falciare l’erba e quindi s’interromperebbe un circolo virtuoso in essere da quando l’uomo ha cominciato ad allevare animali. I tempi stanno cambiando e la “moda” del biologico sta diminuendo rispetto all’importanza che oggi viene data alla sostenibilità e i produttori si sono orientati più verso quest’ ultimo aspetto.

Parliamo di sostenibilità nei sistemi alimentari.
Bisogna prendere in considerazione, come ho detto all’inizio, tutta una serie di fattori che insieme determinano il concetto di sostenibilità. Prendiamo ad esempio i trasporti. Molto spesso ci scandalizziamo quando leggiamo nelle etichette che una mela o un avocado arrivano dal Cile oppure che l’agnello arriva dalla Nuova Zelanda. Non sempre il fatto che arrivino da lontano significa che non sono prodotti sostenibili. In alcuni paesi, dove queste produzioni riescono a essere realizzate con bassissimi impatti ambientali, anche se alla fine si aggiunge, il costo del trasporto aereo a conti fatti risulta che è meglio l’agnello dalla Nuova Zelanda che quello dell’allevamento in Sicilia, dove magari c’è una produzione più bassa, occorre realizzare un ricovero, si devono nutrire gli animali con particolari mangimi. Se si tengono in considerazione tutti questi elementi, consumo di carbonio e di tutto il resto, si realizza che l’agnello che hai comprato da un allevamento in Sicilia impatta di più. Questo è un discorso che vale per molti altri prodotti ed è quindi sbagliato negare la valenza di alcuni scambi alimentari a livello mondiale con la motivazione che il trasporto non li rende sostenibili: va fatta una valutazione globale.
Altro esempio è il mercato contadino che è tanto di moda negli ultimi anni. Il consumatore che decide di recarsi, per esempio, d Roma in Abruzzo per comprare prodotti più genuini direttamente dal produttore, non si rende conto di quanto poco tutto questo sia sostenibile perché il viaggio in macchina e tutto il resto che ne consegue danno un risultato molto impattante. Lo dimostrano i conti della LCA, cioè il Life Cycle Assestment che valuta i potenziali impatti sull’ambiente associati a un bene o servizio, a partire dal rispettivo consumo di risorse e dalle emissioni, che sono calcoli molto complessi.
Bisogna sempre considerare che le catene alimentari sono lunghe e dipendono da molti fattori. I consumatori sono parte di questa catena e il compito che si devono prefiggere è fondamentalmente uno solo: evitare lo spreco. Tutti noi ci dobbiamo ”vergognare” quando buttiamo del cibo. E ne buttiamo via tantissimo. Oltre alla cucina del riciclo che ci permette di trovare soluzioni creative “svuotafrigo” con ricette originali, c’è tutta una serie di accorgimenti che possiamo adottare. Come fare la lista della spesa prima di uscire e rispettarla senza farsi attrarre da offerte speciali che ci portano a comprare cibo che non ci serve. Un altro suggerimento è usare le monoporzioni se si è soli o se non si è certi di sfruttare quantitativi più grandi. Anche le monoporzioni sono state demonizzate per il loro packaging. Molto meglio un po’ di plastica che avvolge la quantità di prodotto che verrà totalmente utilizzata, che un prodotto sfuso che magari viene gettato via in parte perché non consumato e deteriorato. Questi sprechi sì che sono azioni impattanti per il pianeta!

Come possono le aziende alimentari diventare sostenibili?
Tutte le aziende alimentari sono concentrate sul tema della sostenibilità. Lo si vede nei programmi, negli studi, nei protocolli che adottano. Seguono ovviamente quelli che sono i trend e soprattutto le richieste dei consumatori. Quanto poi le stesse riescano a raggiungere l’obiettivo, dipende da molte cose: il tipo di azienda, di che materie prime ha bisogno, i macchinari che utilizzano. A volte non è proprio una vera ricerca della sostenibilità ma è più un’immagine che si creano per venire incontro alle richiestele consumatori. In genere però in tutte le grandi aziende ci sono protocolli che vanno in questa direzione a cominciare dal reperimento delle materie prime. Molte multinazionali optano per la scelta di fornitori che certificano di avere piantagioni a basso impatto ambientale, con politiche etiche nei confronti dei lavoratori. Più l’azienda è grande e più cerca di essere sostenibile su scala globale. Un’operazione che si tende sempre più fare è creare accordi diretti con il produttore per accorciare la catena produttiva. Le aziende di caffè fanno per esempio accordi diretti con i proprietari delle piantagioni, cui garantiscono un prezzo fisso, con la richiesta di una qualità che deve essere di un certo livello. A questo punto l’azienda si assicura un prodotto sostenibile con certe caratteristiche, con alcuni valori aggiunti come la sottoscrizione di accordi etici che impediscono, per esempio, lo sfruttamento minorile, il lavoro nero ecc. Non si tratta di un monopolio punitivo perché gli stessi contadini del luogo ambiscono a essere ammessi a questi rapporti di esclusività che li fa sentire più tutelati e valorizzati. Questa è vera sostenibilità. Al contrario, c’è ancora molto prodotto incontrollato. Prodotti che finiscono nello stock market della soia, delle sementi che non si sa bene da dove arrivano e che magari troviamo nei nostri mercati. Per fortuna è un modello, questo delle multinazionali, che si sta sviluppando. Chi vuole andare in questa direzione si sfila dal mercato incontrollato e diventa direttamente responsabile delle proprie catene di produzione. In questo modo l’azienda s’impegna a realizzare azioni per ridurre al minimo o azzerare l’impatto ambientale. Per esempio, un’azienda che ha bisogno per i suoi prodotti di olio di palma, s’impegna a impiantare il corrispondente quantitativo di pianta che ha utilizzato. C’è davvero un’esponenziale crescita di consapevolezza nelle aziende e conseguente sforzo verso la sostenibilità ma c’è il pericolo che non sia sufficiente: ci sono 7 miliardi di persone che devono nutrirsi, una sorta di nuvola di cavallette che aggrediscano il pianeta e chiedono continuamente cibo.

Come educare il consumatore a smettere di sprecare il cibo? Quali sono le motivazioni più forti su cui bisognare fare leva.
Sicuramente il pericolo del cambiamento climatico e le sue conseguenze stanno già svolgendo un’azione educativa. L’aspetto ambientale, soprattutto fra i giovani, crea consapevolezza. L’importante però sarebbe di cambiare le pratiche quotidiane: le persone devono imparare a comprare solo il necessario. E poi bisogna considerare la vergogna dello spreco, spreco che si esaspera nei paesi industrializzati. I dati che ci arrivano, sono dati scandalosi.
Sembra una sciocchezza ma fare la lista della spesa, razionalizzare quello che compri che poi consumi senza buttare, comporta il 20% in meno di sprechi. Con la diffusione del takeaway, c’è stato un calo degli sprechi perché si compra solo quello che si consuma. In alcuni paesi, come in Olanda, è molto diffuso un sistema per cui si acquista online e arriva a casa quello che devi cucinare, ad esempio, nei prossimi tre giorni. Questo sistema, che si chiama Hello Fresh, fa recapitare un menù e tutti gli ingredienti dosati per preparare pietanze per un determinato periodo. Devi solo comunicare quante persone si metteranno a tavola per definire la quantità. In questo caso zero sprechi e la possibilità di cucinarsi il cibo da soli e secondo i propri gusti con ingredienti dosati. Uno strumento che crea consapevolezza e ti allena a comportamenti virtuosi. I consumatori devono capire che è ora di smetterla di riempire carrelli e frigoriferi facendosi guidare dall’istinto ma è necessario programmare la spesa o riscoprire i negozi di prossimità dove si compra quello che è necessario a breve senza fare enormi scorte che rischiano di creare sprechi. Se proprio ci sentiamo più a nostro agio a possedere in casa scorte di cibo, poniamo la massima attenzione nel limitare il fresco e piuttosto facciamo rifornimento di alimenti a lunga scadenza che possono stare in dispensa. A tale proposito, si sta discutendo molto ultimamente sulla necessità di togliere la data di scadenza da alcuni alimenti. Non quelli freschi ovviamente ma quelli conservati. Come data di scadenza s’intende quella dicitura “Consumare preferibilmente entro…”. Prendiamo per esempio la pasta, i legumi, i pelati. Magari la data di scadenza è di due anni e quando scadono le persone se non l’hanno consumati, li buttano via. Questo è uno spreco perché il prodotto è ancora commestibile. Si sta lavorando, anche a livello legislativo, per togliere quella data perché le tecniche di conservazione permettono di andare ben oltre la scadenza riportata. Questa norma della scadenza poteva funzionare quando lo spreco alimentare non era un fenomeno così diffuso. Ora che invece lo è, l’obiettivo da raggiungere è che un prodotto o ha una scadenza – perché veramente fresco e deperibile – o non ce l’ha. E questo sicuramente ci educherebbe a fare acquisti meno impulsivi e avventati e a diventare consumatori consapevoli.