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De-estinzione. Un team di scienziati recupera specie vegetali scomparse attraverso la germinazione di semi conservati negli erbari.

Intervista di Anna Magli al Prof. Thomas Abeli, docente di biologia della conservazione dell’Università Roma Tre.

Un team di ricercatori di tutto il mondo, coordinati dal prof. Thomas Abeli e la Dott.ssa Giulia Albani Rocchetti del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre, ha analizzato gli erbari di piante oggi estinte, scoprendo che, in realtà, molte di esse potrebbero essere “resuscitate” grazie ai loro semi contenuti negli erbari stessi. Un processo noto come de-estinzione. Ne parliamo con il Prof. Thomas Abeli, docente di biologia della conservazione dell’Università Roma Tre.

Prof. Abeli questa pratica del recupero di semi antichi era già stata sperimentata, cosa c’è di diverso in quella portati avanti da lei e la sua equipe?

La germinazione di semi antichi non è una novità, come dimostrano diverse germinazioni di semi rinvenuti in siti archeologici. Tra questi, un caso molto noto, è quello della palma da dattero detta “Palma di Matusalemme” cresciuta da semi rinvenuti in un sito archeologico israeliano risalente a circa 2000 anni fa; o di una pianta erbacea tipica della tundra cresciuta a partire da semi rimasti congelati nel permafrost per circa 30.000 anni. L’originalità dell’idea che proponiamo nello studio sta nel tentativo di recuperare specie vegetali scomparse attraverso la germinazione di semi conservati per decenni negli erbari. Non parliamo, quindi, di riportare in vita piante preistoriche, ma di recuperare specie vegetali scomparse in epoca storica per effetto dell’uomo. 

Quali sono le caratteristiche che deve avere un seme antico per aspirare a essere utilizzato per la de-estinzione? Ci sono piante  più adatte a essere candidate al procedimento? 

Innanzitutto, un seme deve essere vivo o comunque deve contenere alcune cellule ancora vitali. È infatti possibile far germinare un seme solo se l’embrione è ancora vitale, oppure attraverso tecniche di propagazione in vitro (in laboratorio) è possibile far crescere intere piante da poche cellule vitali, un po’ come nel caso delle cellule staminali animali. Naturalmente non è così semplice far sviluppare semi antichi e l’identificazione dei giusti protocolli di laboratorio può richiedere anni, a meno di non essere molto fortunati. Ci sono poi alcune piante dotate di semi naturalmente longevi, i cui embrioni vivono più a lungo, come per esempio i legumi. Proprio nella famiglia delle Fabaceae o Leguminose vi è la maggior parte di potenziali candidati alla de-estinzione, secondo il nostro studio. Semi grandi, con tegumenti molto spessi, fanno sì che i semi delle leguminose possano vivere anche per secoli, se protetti e conservati in buone condizioni.

 

Lei ha dichiarato che il tentativo di contrastare la perdita di biodiversità vegetale e di riportare in vita piante ormai estinte potrebbe essere, oltre che costoso, non privo di risvolti etici. Che cosa intende?

Fino ad ora le de-estinzioni, sia in ambito animale sia vegetale, sono puramente teoriche e si basano su studi che ancora indagano le pratiche da adottare, le specie che si potrebbero selezionare, ecc. Non siamo ancora passati veramente ad una fase operativa anche se ci stiamo vicinando. Ci sono, però, risvolti etici in generale nell’ambito delle de-estinzioni soprattutto per quelle animali. Ogni tanto circolano notizie stravaganti su possibili resurrezioni di mammut o altri animali preistorici, che al di là della fattibilità, richiedono riflessioni sul fatto che sia eticamente corretto o meno procedere in quello che gli inglesi chiamano “Playing God”, cioè giocare a fare Dio), o che cosa fare una volta che si dovesse riuscire nell’impresa. La cautela è d’obbligo. Anche perché le de-estinzioni potrebbero essere molto costose per via delle tecniche molto complesse necessarie, quindi ci si potrebbe chiedere perché non utilizzare le risorse per salvaguardare altre specie non ancora estinte, ma prossime a diventarle. Quello che proponiamo nel nostro studio non implica tecniche di ingegneria genetica, ma semplicemente la germinazione di semi di piante scomparse recentemente per cause antropiche, allo scopo di invertire la tendenza di perdita di biodiversità, quindi, da questo punto di vista, un processo sicuramente meno estremo rispetto al resuscitare specie preistoriche.

 

Tra le azioni che possono contribuire a ridurre il rischio di estinzione vi sono le cosiddette traslocazioni a scopo di conservazione, cioè movimenti intenzionali di specie da un sito ad un altro allo scopo di generare dei benefici per la conservazione delle specie stesse. In cosa consiste la migrazione assistita e come si attua?

Le migrazioni assistite sono tecniche già in corso di attuazione, sia per piante che animali, che prevedono lo spostamento di una determinata specie in un luogo dove questa non è mai stata presente, allo scopo di anticipare gli effetti del cambiamento climatico. Ogni specie ha un suo areale geografico in cui vive.  Gli areali delle specie stanno diventando molto fluidi per effetto dei cambiamenti climatici. Ci sono degli esempi evidenti sotto gli occhi di tutti. Per esempio, un tempo gli istrici non andavano più a nord della Toscana, mentre oggi li troviamo in Lombardia e  continuano a spostarsi  verso nord. Orchidee spontanee che fino a fino a 15/20 anni fa erano tipiche delle coste liguri e romagnole le ritroviamo nell’entroterra, in pianura Padana, per effetto di inverni meno rigidi. Mentre quelli descritti sono movimenti migratori naturali, le migrazioni assistite sono degli spostamenti mediati dall’uomo per assecondare questi movimenti spontanei. In questo modo, si facilita l’espansione dell’areale geografico occupato da specie minacciate dal cambiamento climatico prevenendone l’estinzione là dove il clima non è più favorevole o dove sappiamo che non lo sarà più nel giro di pochi anni. Le migrazioni assistite sono una pratica non scevra da rischi perché quando si sposta una specie dal suo areale difficilmente si riescono a prevedere tutti i rischi collegati. Per esempio, queste specie, nel nuovo ambiente, possono diventare invasive e costituire una minaccia per le specie già presenti. Oppure possono portarsi dietro malattie, parassiti oppure ibridarsi con specie già presenti.

 

Quali sono a suo avviso le specie tipiche del nostro territorio in estinzione, e quelle recentemente già scomparse che hanno maggiormente attratto il suo interesse?

L’Italia ha una flora ricchissima. Gli ultimi inventari parlano di quasi 9000 specie. Ne abbiamo circa 1300 esclusive della nostra penisola. Conoscendo molto bene lo stato di conservazione delle specie endemiche, sappiamo purtroppo che il 50% è a rischio di estinzione. Alcune in modo più grave, altre meno, ma ce ne sono parecchie che si trovano nella fascia di rischio più elevato. Alcune sono già estinte e purtroppo che non saranno recuperabili neanche attraverso le de-estinzioni perché sono piante con semi poco longevi. Tra quelle gravemente minacciate di cui mi sto occupando, c’è Isoetes malinverniana , una felce acquatica molto antica. Si trova solo nelle province di Pavia, Novara e Vercelli e ha subito negli ultimi 20 anni una riduzione di areale di quasi il 90%. Questa felce è probabilmente candidata a essere dichiarata estinta in natura ma per fortuna ne esistono collezioni negli orti botanici che stiamo cercando di espandere, proprio per evitare che si perda completamente, essendo il suo habitat naturale  gravemente minacciato. Essa vive nei canali che alimentano le risaie, in una zona, la pianura Padana occidentale, fortemente impattata dall’agricoltura. In passato, i canali artificiali ne hanno favorito l’espansione, ma l’uso prolungato di erbicidi e fertilizzanti e la meccanizzazione della pulizia dei canali, ha comportato la quasi scomparsa di questa specie. La sua funzione è molto importante, perché è un indicatore di acque oligotrofiche, cioè povere di nutrimento. La sua presenza indica che l’acqua è pulita e scompare proprio quando le acque sono inquinate.