+39 3533176032
Iscriviti alla newsletter


Sustainability Manager, la figura professionale poliedrica e trasversale che guida la sua azienda verso
una corretta gestione ambientale, economica e sociale.

Intervista di Anna Magli a Marisa Parmigiani, Head of sustainability and stakeholder management Unipol Group, Direttrice Fondazione Unipolis e Presidente Sustainability Makers.

Trasformare un’azienda in una realtà sostenibile è uno dei punti di partenza da cui si stanno sviluppando nuove figure professionali. Tra queste spicca il Sustainability Manager. A lui è demandata una funzione preventiva e strategica in linea con le più recenti novità normative ambientali, energetiche e di sicurezza finalizzata alla promozione di investimenti, politiche e iniziative sostenibili. Ne parliamo con Marisa Parmigiani, Head of sustainability and stakeholder management Unipol Group, Direttrice Fondazione Unipolis e Presidente Sustainability Makers, l’associazione italiana dei Sustainability Manager.

Dottoressa Parmigiani, la centralità della figura del Sustainability Manager nelle aziende oggi è pari a quella di chi elabora il piano strategico. Che tipo di formazione deve avere questa figura e con chi si relaziona principalmente all’interno dell’Azienda?

Sarebbe importante che il SM riportasse sempre all’alta direzione, proprio per questa interazione continua con gli aspetti strategici della gestione dell’organizzazione. Oggi, in Italia, questo avviene in 3 casi su 4. Per operare poi si relaziona con tutte le principali figure aziendali: sicuramente il CFO per gli aspetti di rendicontazione, il responsabile pianificazione strategica per l’integrazione dei criteri ESG, le funzioni di controllo per il presidio delle politiche e delle normative, ove applicabili, e infine la struttura di business per l’innovazione di prodotto e servizio, ma anche quella HR per la gestione sostenibile del personale. La formazione nel 36,5% vede una laurea in management, ma iniziano a crescere anche le competenze tecnico-scientifiche, dato lo sviluppo dei temi ambientali.

 

Il Sustainability Manager è chiamato a svolgere quattro funzioni: generatore di conoscenze e consapevolezza, facilitatore, project manager, auditor. Possiamo spiegare in breve in cosa consistono questi compiti?

Sicuramente ha il compito di accrescere la consapevolezza e diffondere la conoscenza, operando da un lato con approccio maieutico per far emergere il purpose di un’organizzazione, dall’altro declinando la propria competenza, insieme a chi opera nella formazione, in funzione dei diversi pubblici. Inoltre, funge da facilitatore di relazioni tra le diverse aree aziendali perché la transizione sostenibile può avvenire solo attraverso l’impegno di tutte le funzioni: è un percorso integrato che, per essere efficace, non può essere sviluppato da una singola Direzione, soprattutto se si tratta della funzione sostenibilità, che nella maggior parte delle imprese non ha leve dirette di gestione. Inoltre, il Sustainability Manager è un project manager: tutta la transizione si articola in progetti in cui le diverse Direzioni portano le competenze tecnico-specifiche mentre il SM garantisce il piano di lavoro. Infine, il SM deve osservare che vengano rispettati i principi delle politiche ESG, non come un vero e proprio auditor, ma come un garante di quanto definito.

 

La sfida delle aziende è oggi rendere la sostenibilità un approccio di massa, acquisire una visione sistemica, che connetta ambiente, società e conoscenze specialistiche. Secondo lei questa è prerogativa delle grandi aziende o è un obiettivo raggiungibile anche da piccole aziende e da altri settori come terziario e no profit?

Sicuramente, le grandi aziende hanno sviluppato un percorso di maturazione su questi temi maggiore delle PMI: un percorso a geometrie variabili, ma che talvolta mostra livelli di implementazione di politiche di sostenibilità in azioni anche molto avanzate. Penso che in generale, con le dovute eccezioni, alle PMI manchi una visione sistemica complessiva.

 

Fra le funzioni del Sustainability Manager c’è anche quella di preservare l’immagine aziendale da eventuali accuse di green washing, tema che noi abbiamo spesso trattato in questi anni, quindi molta attenzione anche alla politica di comunicazione dell’azienda. Come avviene questo controllo?

In realtà l’azione di controllo dipende dal livello di cultura della compliance e del controllo presenti nell’organizzazione, piuttosto che dal tipo di relazione esistente tra il SM e la Direzione Comunicazione. Di conseguenza non c’è un modello univoco di controllo ma lo stesso si declina differentemente nelle diverse organizzazioni, fino a poter essere completamente assente in assenza di specifica normativa.

 

Quanto è radicata nel nostro Paese la cultura del Sustainability Manager?

La cultura del SM è tipicamente anglosassone ma abbiamo assistito negli ultimi dieci anni a una crescita significativa di professionisti nel nostro paese, come rilevano, per esempio, gli studi della nostra associazione Sustainability Makers, che riunisce proprio i professionisti della sostenibilità italiani. Tuttavia, occorre considerare che la diffusione di una cultura vera e propria, nonché la consapevolezza di tale ruolo sono elementi ancora molto elitari.

 

Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole intraprendere questa professione?

Di intraprendere studi quantitativi, innanzitutto perché c’è molta gestione di indicatori, indici e parametri. Di prevedere al termine del corso di laurea un master specialistico e di percorrere questa strada se, e solo se, si è disponibili a studiare tutta la vita perché questo è un campo in continua evoluzione. Vorrei però anche dire loro di non pensare che solo facendo il SM ci si possa occupare di sostenibilità in azienda, perché le ultime ricerche rilevano come sempre di più vengano ricercate competenze di sostenibilità in specialisti delle diverse aree aziendali.