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La chiave del non-spreco è l’ecodesign. i beni – anche i vestiti – vanno progettati per essere riparati, smontati e riutilizzati.

Intervista di Anna Magli ad Elena Barone, responsabile dei servizi di consulenza SPIN360.

Non ci sono dati certi su quanti siano, ogni anno, i capi di vestiario invenduti, ma negli ultimi tempi è sempre più evidente la necessità di un freno alla crescente tendenza delle imprese di produrre, importare e infine distruggere merci di varia natura senza che le stesse siano mai state, di fatto, utilizzate; pratiche che portano a conseguenze per l’ambiente molto gravi. Secondo un report pubblicato dal Parlamento Europeo del marzo 2022 , ogni anno ciascun cittadino europeo consuma in media 26kg di prodotti tessili (il 40% in più rispetto agli anni ‘90) e ne smaltisce circa 11kg. Non solo: nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. Ne parliamo con Elena Barone, Responsabile dei servizi di consulenza SPIN360, una società che aiuta le aziende delle filiere produttive a ridurre l’impatto ambientale.

L’Unione Europea sta lavorando sull’introduzione di un “passaporto digitale del prodotto” per rendere trasparente la filiera e l’impatto ambientale di ogni singolo capo. In cosa consiste?
L’introduzione del passaporto digitale fa parte di una ampia proposta di direttiva sull’ecodesign, che mira a introdurre modalità di produzione più sostenibili, raccogliendo i dati dell’intero ciclo di vita dei prodotti. La proposta di legge nasce come evoluzione di una direttiva precedente, generata da una serie di consultazioni, che ha prodotto un accordo provvisorio che sarà votato a marzo 2024.  In particolare, la direttiva sull’ecodesign prevede una serie di misure volte a progettare prodotti ecocompatibili, cioè concepiti prevedendo l’elevata durabilità, la riparabilità, l’efficienza energetica e dell’uso delle risorse, fin dall’idea creativa. Anche il passaporto digitale fa parte delle misure previste dalla direttiva: è uno strumento che permetterà di raccogliere informazioni sulle performance ambientali dei prodotti, tra cui il tipo di materiali utilizzati, la loro origine, i consumi di risorse associati alla produzione e all’uso, oltre che altre informazioni utili ad estendere la durata di vita. Accedendo al contenuto del passaporto digitale, il consumatore potrà informarsi sulle caratteristiche del prodotto che sta acquistando e scoprire come renderlo più duraturo (facendo attenzione ai consigli di manutenzione), ripararlo e riciclarlo.

 

Sempre secondo questo regolamento, si prospetta un divieto diretto di distruzione di prodotti tessili, calzature e articoli di abbigliamento. Basterà a limitare produzione della fast fashion?
La Commissione Europea ha dato indicazioni affinché le aziende adottino misure per prevenire la distruzione dei prodotti tessili che, comunque, dovranno essere anche meno complessi e meno impattanti.  Non possiamo dire ora se questa misura sarà sufficiente per cambiare i processi produttivi del fast fashion, ma sicuramente è un indirizzo preciso che arriva da parte del legislatore per andare verso la direzione giusta.

 

Secondo Forbes, però, la pratica di distruggere capi invenduti e persino rotoli di tessuto inutilizzato è comune anche per i marchi di lusso, per quale motivo?
Non ci sono in realtà dati certi sulla quantità e sulle ragioni della tendenza alla distruzione dei capi invenduti. In generale, tutti i processi produttivi prevedono un avanzo di materiale in magazzino. Nel caso del mercato del lusso, che si rivolge ad una fascia particolare di consumatori, offrendo pochi prodotti, di qualità superiore, la quantità dell’invenduto è più contenuta; qui gli stessi brand adottano diverse soluzioni per evitare di distruggere i beni, come per esempio le svendite ai dipendenti, le cosiddette Family&Friends, o le vendite presso gli outlet.

 

Ci sono anche soluzioni virtuose. Chi dona a organizzazioni no-profit, chi alle scuole di moda per far fare pratica agli studenti…
Esatto. La distruzione dei beni invenduti non conviene a chi produce né dal punto di vista economico, né da quello ambientale. Ci sono diverse soluzioni virtuose che permettono di evitare la pratica della distruzione. Donazioni alle Accademie di Moda, per esempio, ma anche scambi all’interno di uno stesso Gruppo, che significa recuperare materiali e componenti di alta qualità e utilizzarli per altre produzioni. Un’altra soluzione per gestire l’invenduto è la cessione agli stockisti, che troveranno nuovi canali di vendita e altre destinazioni. 

 

Il modo migliore per risolvere il problema dell’invenduto resta, comunque, cercare di non averlo. Come possono fare le aziende per realizzare una programmazione di produzione ponderata?
La soluzione risiede nel produrre solo quando si verifica la domanda, ossia applicare la pratica nota come “make to order”. Quindi, anziché produrre a priori, riempiendo i magazzini in attesa degli acquisti da parte dei clienti, si produce solo a fronte degli ordini ricevuti. Fare leva sugli ordini online, per esempio, potrebbe essere una soluzione: essi, infatti, permettono di avere un’idea di quanto andrà effettivamente venduto e, così, si può far partire la produzione o assemblaggio da quel momento. Ciò già funziona in altri settori produttivi, come quello dell’automotive: recandosi dal concessionario, non si trova l’auto già pronta ma solo un modello e alcune varianti tra cui scegliere. Una volta richiesta la personalizzazione da parte del singolo cliente, parte l’ordine per la produzione. Il modello “make to order” è già applicato da alcuni piccoli brand per evitare fondi di magazzino ed invenduto. 

 

Che cosa è SPIN360 e quale tipo di supporto fornisce alle aziende produttrici di capi di abbigliamento per essere più sostenibili?
SPIN360 è una società di consulenza in forte crescita che misura l’impatto ambientale delle filiere produttive. Misuriamo, quindi, quante risorse idriche, energetiche, ecc. vengono consumate per realizzare i prodotti. Una volta acquisite queste informazioni, affianchiamo le aziende nella messa a terra di misure volte a ridurre l’impatto ambientale. Lavoriamo con un duplice obiettivo: sviluppiamo piani per realizzare gli stessi prodotti utilizzando meno risorse, innovando le filiere produttive. Confrontandoci con i fornitori spieghiamo le cause e gli effetti del sovra consumo, selezioniamo e valutiamo nuove tecnologie per ridurre l’impatto. A questo processo aggiungiamo lo studio del design, cioè la creazione dei prodotti del futuro concepiti per essere appunto meno complessi – realizzati con meno materiali -, meno impattanti e più durevoli. Questa nuova impostazione della produzione passa anche dalla proposta di nuovi modelli di business, come appunto il make-to-order, già menzionato precedentemente, la condivisione, la vendita di seconda mano ecc. 

 

Perché avete individuato la chiave della soluzione nel Design?
Oltre il 40% dei costi legati alla vita dei prodotti, quindi la manutenzione, la possibilità di riparare ecc., viene determinato nella fase di creazione, di concepimento, del design del prodotto stesso. Quindi, collaborando con le funzioni che si occupano dello stile, dello sviluppo del prodotto, e pensando insieme a come si possa concepire il prodotto del futuro, riusciamo a ideare proposte meno complesse, con minore utilizzo di materiali, parti da assemblare e riparare. Questo approccio allungherà la vita dei prodotti e consentirà ai consumatori di scambiare, riutilizzare e riparare i beni che hanno acquistato.