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Design e agricoltura forestale per un’azienda agricola innovativa.

Intervista di Anna Magli a Caterina Lenzi, laureata in Design del Prodotto Industriale all’Università di Bologna.

Podere 101 è una giovane azienda agricola nata dalla voglia di fare qualcosa di concreto per contrastare il cambiamento climatico, tutelando e arricchendo la biodiversità del territorio in cui si trova, con un nuovo approccio rispetto all’agricoltura tradizionale. Nella campagna bolognese, con un nuovo metodo a basso impatto ambientale, vengono allevate pecore, galline ovaiole con innovativi pollai mobili in rotazione sui pascoli, e preziose api, indispensabili per l’impollinazione. Si ottengono così prodotti di altissima qualità, uova fresche e miele genuino a km zero. Per arricchire l’ecosistema e proteggere le colture dagli eventi climatici estremi, sono stati riprogettati gli spazi agricoli attraverso l’agroforestazione. Sono nate così le fasce boscate, siepi e filari realizzati piantumando circa 3000 alberi e arbusti, nell’ambito del progetto “Mettiamo radici per il futuro” della Regione Emilia Romagna, messi a dimora con la collaborazione di oltre 100 persone. Il valore aggiunto di questo progetto è il coinvolgimento della comunità locale nella ricostruzione della rete ecologica del territorio verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile.
Caterina e Tommaso Lenzi, una coppia di fratelli poco più che ventenni, hanno preso in mano le redini dell’antico Podere 101, un’oasi di quattro ettari ad Anzola dell’Emilia, rilevando l’attività del nonno. Abbiamo chiesto a Caterina Lenzi, laureata in Design del Prodotto Industriale all’Università di Bologna, con un master in Furniture Design presso il Politecnico di Milano, di parlarci del loro progetto.

Quando avete realizzato a Podere 101 e da che basi siete partiti?
Podere 101 è nato all’inizio del 2020 anche se, in un’altra forma, esisteva anche prima. Mio fratello, che ora sta studiando presso l’Università di Agraria, ai tempi si occupava già di apicoltura e allevamento di galline usando metodi per ridurre l’impatto ambientale. Io, che stavo finendo l’Università dove ho studiato Design del Prodotto Industriale, vedendo questa sua grande energia ho pensato di creare un’immagine per questa realtà che si stava formando, per comunicare anche agli altri i suoi progetti.
Nel 2020 ho disegnato il logo di Podere 101 e lo abbiamo pubblicato sul profilo social Podere 101. La nostra attività informativa in quel periodo, non era finalizzata al commercio ma si proponeva solo come la testimonianza di persone che lavoravano con particolare attenzione alle tematiche di sostenibilità dell’agricoltura e dell’allevamento, che descriveva come avere un approccio meno impattante sul pianeta, come autoprodursi il cibo e spiegava l’importanza delle api e il contributo indispensabile che apportano nel mantenimento degli habitat e nella nostra agricoltura. Un po’ alla volta ai post si sono affiancati dei veri video didattici per spiegare i nostri metodi e ciò ha determinato un numero di follower sempre più numeroso.

Com’era il podere quando avete cominciato a gestirlo?
Il podere era un tipico podere ad agricoltura tradizionale e apparteneva a mio nonno che lo ha coltivato fino a 10 anni fa. Quando lo abbiamo rilevato era in stato di abbandono: i frutteti s diventati boschetti, i vigneti decadenti, i campi di ortaggi, i prati incolti. Ci siamo trovati davanti a un foglio bianco su cui disegnare e immaginare nuovi progetti. Anche se il nonno non è proprio convinto delle nostre tecniche agricole, è felice che qualcuno stia portando avanti il lavoro di tutta la sua vita.
Come hai potuto mettere a frutto i suoi studi, forse solo apparentemente così lontani da questa realtà, nel vostro progetto?
All’inizio del progetto mi sono occupata della comunicazione, soprattutto di quella sui social. Ho realizzato il logo e l’immagine coordinata, cui abbiamo contribuito sia io che mio fratello Tommaso, perché volevamo che rappresentassero la nostra filosofia di lavoro, che la comunicassero con efficacia. Nel logo ci sono due rami che si inseguono in cerchio, per comunicare il concetto di circolarità. Anche la scelta del blu non è scontata, perché il verde è ormai un colore inflazionato, troppo usato da tutte quelle aziende che vogliono associarsi alla sostenibilità ma che in realtà sostenibili non sono, letteralmente “greenwashing”. Ho messo poi a frutto la mia progettualità per realizzare il packaging e le etichette dei nostri prodotti, dai vasetti di miele alle scatole portauova. Mi occupo anche dello sviluppo di nuovi prodotti e della ricerca di materiali di packaging sostenibili e riutilizzabili.

Su che principio si basano le vostre tecniche di allevamento di pecore e galline?
Si basa tutto sull’allevamento al pascolo, allevamenti mobili perché le strutture in cui vivono gli animali hanno le ruote. Questo permette di posizionarle in ogni punto del podere secondo le nostre esigenze. Parliamo di un allevamento che non prevede un capannone, uno spazio chiuso dove le galline si trovano sempre a razzolare lo stesso terreno, ma della possibilità di offrire loro spazi sempre nuovi, ricchi di erba fresca e insetti, dimezzando il consumo di mangime. Vivono in un ambiente che si rinnova continuamente, sempre pulito, senza accumulo di parassiti e feci che portano malattie. Questa pratica permette anche di arricchire i terreni grazie alle deiezioni lasciate dagli animali che ne aumentano la fertilità, e questo vale sia per il pollaio sia per la casetta delle pecore. Le strutture sono protette da reti elettrificate per evitare gli attacchi dei predatori. I risultati li abbiamo visti: i pascoli sono sempre più sani, verdi e rigogliosi e fra alcuni anni potremmo coltivare nuovi frutti e ortaggi.

Qual è il valore aggiunto che viene attribuito ai vostri alveari, oltre a quello di produrre ottimo miele?
Mio fratello Tommaso ha studiato apicoltura ed ha avuto la fortuna di essere affiancato da una persona molto esperta che gli ha insegnato un approccio innovativo e orientato al rispetto dell’insetto. Un approccio non focalizzato esclusivamente alla produzione di miele ma in primis alla salute delle api, che faticano a vivere in modo autonomo perché minacciate da sbalzi climatici, pesticidi e inquinamento.
Gli sciami e le famiglie giovani si trovano proprio qui al podere, in primavera quelle più forti e popolate, vengono portate negli apiari di collina, San Lorenzo in Collina e Monte San Pietro, dove poi rimarranno per sempre e dove produrranno miele lontano dallo smog e dall’agricoltura di pianura.
Sempre nel rispetto delle api non pratichiamo il nomadismo, che significa prendere gli alveari e spostarli sempre in luoghi diversi per produrre mieli monofore. Il nomadismo è una pratica molto usata ma innaturale che porta le api a doversi abituare, periodicamente, a un nuovo territorio e clima. Nel rispetto delle api preferiamo non farlo, non vogliamo che siano stressate da continui disorientamenti. Per questo abbiamo diversi mieli millefiori e, a seconda della stagione, produciamo alcuni mieli monofiore da piante che si trovano nell’area che le api hanno a disposizione, cioè acacia, tiglio, melata. Su questo principio abbiamo fatto un grosso lavoro di comunicazione. Il miele millefiori, che viene considerato uno dei più comuni, lo abbiamo raccontato in modo diverso, in modo da valorizzarlo e rifiutare la sua svalutazione come semplice “millefiori”. Il millefiori è un miele speciale che varia secondo dove sono posizionate le arnie e alla stagione in cui viene prodotto, perché le api trovano fioriture diverse e il miele di conseguenza avrà gusti e caratteristiche differenti. È nostro dovere valorizzare un prodotto così prezioso.

Per quanto riguarda le coltivazioni, invece, come siete arrivati all’agro-forestazione? Come funziona?
Mio fratello studia Tecnologie Agro-Forestali ed è lui il progettista di questa parte dell’azienda. Pensa che sia necessario svincolarsi dalla produzione in monocoltura perché poco lungimirante e perché mostrerà sempre di più la sua suscettibilità con l’intensificarsi dei cambiamenti climatici. Un altro dei grandi limiti dell’agricoltura così come la facciamo ora riguarda il mantenimento della fertilità dei suoli, molti dei quali a rischio di desertificazione dopo decenni di pratiche scorrette. Si guarda solo alla resa e non all’impatto sul territorio e non si considera anche l’importante ruolo di mitigazione che potrebbe assolvere per il clima. Con l’agroforestazione si accostano alle coltivazioni, filari di specie forestali: a fronte di una piccola perdita di superficie coltivabile siamo in grado di proteggere le colture da eventi climatici estremi grazie alle chiome degli alberi, difendere il territorio dal dissesto idro-geologico e dall’erosione grazie alle loro radici, assorbire anidride carbonica e ospitare la biodiversità che nelle campagne è sempre più minacciata. C’é chi critica questi nuovi metodi asserendo che siano meno produttivi. Rinunciando però a coltivare il 5% della superficie, investiamo nel futuro: bisogna essere consapevoli che continuando di questo passo, fra alcuni decenni, dovremo rinunciare a coltivare direttamente interi terreni per non aver agito preventivamente ai problemi che attualmente ignoriamo.
Tra questi filari forestati potremo comunque continuare a produrre cibo, con i metodi e le coltivazioni che ogni agricoltore predilige. La forza dell’agroforestazione sta nella sua adattabilità a qualsiasi contesto, basta una buona progettazione!

Come siete riusciti coinvolgere la comunità locale, riuscendo in un anno fa a piantare più di tremila alberi?
Non ci credevamo neanche noi ma è stato possibile soprattutto attraverso i social network. Molte persone hanno cominciato a seguirci e a entusiasmarsi scoprendo il nostro progetto. C’è ci segue da tutta Italia ma c’è anche un pubblico locale che si è accorto che quello che stiamo facendo è proprio dietro casa loro. Molti volevano venirci a trovare, per capire come lavoriamo, così quando abbiamo deciso di realizzare le fasce boscate abbiamo pensato di chiedere una mano a questa comunità. Abbiamo quindi pubblicato sui nostri canali quello che era il progetto e chiesto a chi era interessato di venire a piantare alberi insieme a noi. Molti cercano di portare avanti individualmente pratiche virtuose per l’ambiente, ma piantare un albero è qualcosa che alcune persone non avevano mai fatto. Forse, questa possibilità di sporcarsi veramente le mani, avere a che fare direttamente con la terra ha creato curiosità e stimolo per prendere parte a questi weekend autunnali di piantumazione. Per ogni giornata hanno partecipato una ventina di volontari, si lavorava per un’ora e mezza e dopo si poteva fare merenda tutti assieme, con i prodotti dell’azienda agricola. Le persone che ci hanno aiutato sono diventate parte della nostra famiglia, perché questo progetto ha creato legami molto forti. Spesso tornano a trovarci magari per vedere come crescono gli alberi che hanno loro stessi piantato. Siamo rimasti veramente colpiti dalla varietà di persone che sono venute ad aiutarci, in quattro giornate abbiamo coinvolto circa 100 persone.
Abbiamo piantato, lungo il perimetro, acacie, gelsi, noccioli, aceri campestri. Sui filari esterni agli alberi abbiamo messo a dimora molti arbusti autoctoni e melliferi (che danno polline e nettare agli impollinatori) come rosa canina, sambuco, maggiociondolo, spinocervino, sanguinello… Li abbiamo presi gratuitamente, nei vivai accreditati, grazie al progetto della regione Emilia Romagna “Mettiamo radici per il futuro”.

Come vede il futuro del farming? Sarà sempre più mercati a km 0?
Sarebbe bello superare la logica della grande distribuzione che è inquinante e piena di sprechi. Se davvero volessimo aiutare il pianeta, rifornirsi a km 0 sarebbe la cosa migliore. Non tutti hanno questa sensibilità ma su Bologna e provincia ci sono tante persone che preferiscono andare direttamente dal contadino per acquistare i prodotti coltivati vicino a dove vivono.